Gioco di specchi
Sembra teatro ma non lo è, nonostante la sceneggiatura di Harold Pinter. Se di solito è il cinema ad avere necessità di adattare la staticità del palcoscenico, Il servo (1963) la ricerca, utilizzando le ascendenze teatrali di scrittore e regista per ampliare e rendere più tagliente il discorso alla base di una pellicola che torna in sala, restaurata da Il Cinema Ritrovato.
Nel film ci sono quattro personaggi e due scene: Tony è un ragazzo ricco che assume il più maturo Hugo come suo maggiordomo; il primo è fidanzato con Susan che diffida di Hugo, il quale fa entrare in scena la sorella Vera, che subito sedurrà il padrone di casa.
Il tutto ambientato tra la casa e un pub. Il sesso e il potere come elementi della lotta di classe che Pinter e Losey (regista tra i più significativi dell’intero decennio ’60) adattano allo spirito dei tempi verificando come le intuizioni sociali e filosofiche di Hegel e Marx possano adattarsi alla liberazione dei costumi, specchiandole nei tempi moderni. Il cuore stilistico dell’opera, tratta da un romanzo di Robin Maugham datato 1948, è proprio legato agli specchi e a uno in particolare: quello che domina il centro del salotto, sopra il caminetto, in cui si svolge gran parte dell’azione. Uno specchio che sembra un grandangolo, capace di inquadrare un’ampia porzione di spazio distorcendone contorni e confini. Quella distorsione dello spazio e del ruolo che le figure assumono in esso (sarà un caso che un film di Losey del ’69, in italiano Caccia sadica, si chiami Figures in a Landscape, cioè figure nel paesaggio?) è il senso stesso di Il servo e ne fanno un testo puramente visivo, nonostante la perversa bellezza di certi dialoghi e la crudele caratterizzazione di personaggi e attori: proseguendo l’espressionismo barocco di Welles e quello coevo di Kubrick, la cui prima sequenza di Lolita, girata l’anno prima, richiama fortemente l’incipit del film diretto da Losey, il regista costruisce un’opera in cui l’atmosfera ha la priorità su ogni drammaturgia, quasi la sostituisce con le ombre e i silenzi, i tagli di luce sempre più bassi e opprimenti, la macchina da presa di Douglas Slocombe che si muove spesso alla ricerca di qualcuno o qualcosa, di un’allusione erotica, di un’estetizzazione ironica.
A quasi sessant’anni di distanza, Il servo, che ha contribuito alla consacrazione di Dirk Bogarde come grande attore drammatico, appare piuttosto moderno nella descrizione della decadenza borghese, nel cinismo crudele ma lucido con cui si rifiuta di contrapporgli un proletariato positivo per scavare nei solchi sociali che proprio quella decadenza ha creato, arrivando a un meraviglioso finale di violenza per nulla liberatoria, in cui ogni personaggio resta col peso delle proprie azioni e allo spettatore rimane un nero abisso da contemplare.
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