Sessant’anni fa, nel 1962, Blake Edwards era nel momento più importante della sua carriera: l’anno prima aveva conquistato il mondo con Colazione da Tiffany, l’anno dopo avrebbe cambiato le regole della commedia inaugurando la serie della Pantera Rosa. Così, prima di diventare una volta e per sempre il re della risata moderna, pensa bene di aprirsi a due parentesi inconsuete nella sua filmografia, un thriller e un dramma sociale, da lui mai affrontati prima d’allora.
Operazione terrore (Experiment in Terror) è un thriller puro, che rielabora la lezione hitchcockiana – il bianco e nero secco di Psyco, l’uso dei luoghi e degli spazi di Intrigo internazionale – attraverso la storia di una donna (Lee Remick) che un pazzo minaccia di morte se non ruberà centomila dollari dalla banca per cui lavora. Produttivamente è quasi un B-Movie, ma questa libertà di gestione (Edwards ne è anche il produttore) permette al film di muoversi come una perfetta macchina di suspense e tensione, capace di spaziare tra le sfumature del genere, tocchi di poliziesco e orrore (la magnifica scena nel garage coi manichini) che si servono della fotografia quasi espressionista di Philip Lathrop, che lavora di ombre e distorsioni per approdare a un gran finale allo stadio, magistrale nell’alternare i campi lunghissimi e la macchina a mano. Un film di perfezione artigianale degna dei grandi di Hollywood, che ha ispirato molte opere successive, da Mario Bava a Michael Mann (la tigre di Manhunter). Un’opera che però non prepara il pubblico allo shock di qualche mese dopo: Edwards presenta I giorni del vino e delle rose (Days of Wine and Roses), uno dei più bei drammi sull’alcolismo mai realizzati, assieme al più famoso Giorni contati di Wilder, che racconta la vita di una coppia borghese – interpretata da Lee Remick e Jack Lemmon – la cui felicità è erosa dall’alcool. Il punto centrale del film, che lo rende originale e disturbante, è che l’alcool non è la risposta alla sfortuna (come nel film di Wilder), ma ne è la causa, rendendolo il male strisciante di un’intera classe sociale.
Questa idea è resa con un’intelligenza di scrittura, di toni di regia e attenzione per le interpretazioni superba, in cui la commedia, l’intimità e l’incrollabile fede nell’amore devono lottare contro un tipo particolare di male di vivere, un male che apre squarci stilistici inattesi (immagini sempre a cura di Lathrop), sul filo dell’onirico, in cui il dolore psicologico dei personaggi passa allo spettatore grazie a scelte di racconto prive di compromessi: il finale doloroso seppure in sospeso, con quell’immagine al vetro opprimente, non si dimentica. All’epoca se ne accorsero poco o lo rifiutarono, oggi è uno dei suoi film più amati
Due opere che paiono fare macchia nell’opera di un regista di cui nel 2022 si celebra il centenario (e chissà che fine ha fatto la retrospettiva che Locarno avrebbe dovuto dedicargli nel 2019), e che troveranno una flebile eco in alcuni tentativi degli anni ’70, che mostrano la sensibilità e la bravura del cineasta, ma soprattutto la sua capacità estetica al servizio dello spettatore: Grazie alla riscoperta di questi due lavori, Blake Edwards si rivela un assoluto maestro dell’effetto, ossia della costruzione precisa e certosina di azioni che sanno stimolare reazioni immediate da parte del pubblico (la risata, la lacrima, la paura), in cui però quelle stesse azioni, quegli effetti sono in grado di creare un rapporto umano con i personaggi, servono per stabilirne la profondità con un semplice tocco. Un maestro di stile dotato di un tocco sottile, uno di quelli che andrebbero ricordati più spesso, anche oltre che per le risate di cui ci ha fatto dono.