Demolizioni inevitabili
Le grandi trasformazioni sociali, in particolare le ombre e i gangli del capitalismo, non conoscono confini e non riguardano solo i paesi a noi più prossimi. Kavich Neang, con l’opera prima White Building (presentata nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2021 e ora visibile su Mubi) getta lo sguardo su Phnom Penh, capitale della Cambogia, attraversata da mutamenti che minano singoli rapporti e intere comunità.
Il giovane Samnang e due suoi amici abitano in un grande caseggiato, prossimo alla demolizione. In una città che muta velocemente, i tre giovani si allenano sulle loro coreografie sognando di partecipare a qualche talent show, mentre i genitori rimangono legati a uno stile di vita più tradizionale. Samnang si trova ad affrontare la partenza di uno dei suoi amici e la malattia del padre, che continua a impegnarsi per cercare di mettere d’accordo i vicini.
White Building sorge dal passato, dai ricordi e dalle storie della famiglia di Kavich Neang e del proprio paese, che devono fare i conti con complesse transizioni generazionali e sociali. Il titolo internazionale del film deriva dall’omonimo grande e storico condominio costruito a Phnom Penh negli anni ’60. Vi trovarono casa molti artisti e funzionari governativi, famiglie con un reddito moderato che, nonostante il degrado imperante, continuarono ad abitarvi fino al 2017, anno in cui fu demolito. Quasi 500 nuclei familiari dovettero trasferirsi, tra cui quello del regista, per lasciare spazio alla costruzione di un casinò e di nuove abitazioni lussuose. Una storia che ricorda da vicino quella mostrata in Gagarine di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh per il simile decorso avuto dall’omonimo complesso residenziale della periferia parigina. La Francia si lega alla Cambogia, l’Occidente all’Oriente e la costruzione dei nuovi stati passa attraverso la demolizione di fondamenta che si scoprono instabili, trascinando con sé tradizioni, storie personali e comunità, in nome di una gentrificazione che non risparmia nessuna area e nessuna cultura.
Eppure il film inizia con toni quasi opposti, raccontando l’amicizia dei tre ragazzi e il loro sogno di entrare nel mondo dello spettacolo. Una parentesi tendente al coming of age in cui seguiamo i protagonisti nel giro notturno per la città, tra balli nei locali e tentativi di far conoscenza con delle ragazze durante il viaggio in motorino. Attraverso quella spensieratezza e quel rincorrere la speranza si subodorano le crepe visibili da lì a poco; un cedimento che sembra inevitabile e già tracciato. Quando uno dei ragazzi annuncia la sua partenza per la Francia con alcuni parenti, gli sguardi mutano, i sorrisi scompaiono. È un momento che delinea l’intero film e che Neang sottolinea con l’improvviso spegnimento della lampadina che stava illuminando i loro volti. Con essa si spengono anche la loro amicizia e il loro sogno comune, prime demolizioni che poi si estendono alla famiglia del protagonista, al complesso residenziale e all’intera comunità che lo abita.
Demolire l’edificio non significa infatti solo abbattere le sue pareti, ma anche la comunità che si era creata, mettendo a rischio il futuro di centinaia di persone. White Building si compone dunque di contrasti, tra un passato traumatico e un futuro incerto, tra la tradizione e il rinnovamento, tra il bisogno della collettività e quello capitalistico. Contrasti che rimangono irrisolti e che creano traumi e infezioni, come la cancrena al dito del piede del padre o le simboliche infiltrazioni sul soffitto. Con il suo esordio da regista, Kavich Neang (affiancato da Jia Zhang-ke, nelle vesti di produttore) riscopre e fa riaffiorare il proprio trascorso e quello della Cambogia, con un’osservazione intima che si estende universalmente.