Franco Giraldi: fra Trieste e la rivoluzione sessuale
Scomparso nel 2020, all’età di 89 anni, Franco Giraldi è stato un fine intellettuale e cineasta che andrebbe doverosamente riscoperto, studiato e rivalutato.
I pochi che lo ricordano, solitamente, tendono a sottolinearne quasi esclusivamente il suo tratto più marcatamente triestino (nato a Comeno e cresciuto fra Trieste e Gorizia), come Alessandro Cuk con il saggio La trilogia istriana nel cinema di Franco Giraldi. Il testo di Cuk si sofferma principalmente sui film La rosa rossa (1973), Un anno di scuola (prodotto per la Rai televisione nel 1977) e il più recente La frontiera (1996), tutti e tre di matrice letteraria (rispettivamente Pier Antonio Quarantotti Gambini, Giani Stuparich e Franco Vegliani) e legati dal tema della frontiera al confine triestino.
Ma questo “triestinismo”, che già si affaccia negli esordi cinematografici con il corto documentario La Trieste di Svevo (1961), non è l’unico elemento che caratterizza la poetica e lo stile di Giraldi. Da ricordare nella sua produzione televisiva di matrice letteraria anche il bellissimo La giacca verde (1979), tratto da un racconto di Mario Soldati e interpretato dal superbo duetto Jean-Pierre Cassel/Renzo Montagnani. Dopo gli inizi come critico cinematografico sulle pagine del quotidiano l’Unità e dopo aver fondato in collaborazione con i colleghi Tullio Kezich e Callisto Cosulich il Circolo del Cinema di Trieste, Franco Giraldi inizia ad abbracciare il mondo del cinema come aiuto regista per poi debuttare dietro la macchina da presa nei primi anni sessanta. Dopo l’esordio con il già citato documentario su Svevo e Trieste, Giraldi si affianca a Sergio Leone nella realizzazione di Per un pugno di dollari (1964). Due anni dopo decide di misurarsi da solo nel lungometraggio e gli viene proposto di girare uno spaghetti-western: nasce così 7 pistole per i Mac Gregor (1966) in cui il cineasta giuliano si firma con lo pseudonimo americano di Frank Grafield.
Come ha ammesso lo stesso Giraldi anni dopo, in un’intervista di Italo Moscati, il western non era il suo genere prediletto e difatti il film in questione e ancora di più il seguito 7 donne per i Mac Gregor (1967), sono due spaghetti decisamente anomali che guardano di più al modello cinematografico americano e fanno emergere una vena umoristica da cui si evince che la commedia era il genere che scorreva nelle vene dell’autore.
Già in questo dittico e in un altro western, Sugar Colt (1966), Giraldi porta in superficie una visione rivoluzionaria della donna, dove anche il presunto “sesso debole” fa a cazzotti e sa usare la pistola. Il concetto di emancipazione sociale della donna è un tema che tende ad essere sempre più espanso all’interno della successiva produzione cinematografica giraldiana specie nelle sue commedie. La bambolona esce nel 1968, anno in cui la rivoluzione sessuale ha raggiunto il suo acme, raccontando la sconfitta erotico-economica di un maturo avvocato da parte di una ragazzona di paese che egli aveva cercato di sedurre. Commedia arguta, finissima e sottilmente crudele, La bambolona resta forse il film più limpido e acuto di Giraldi in grado di rinnovare il tema del “lolitismo” all’interno di una società in piena trasformazione, grazie anche alle splendide interpretazioni di Ugo Tognazzi e dell’esordiente Isabella Rei.
Con Cuori solitari (1970) il cineasta giuliano fustiga il perbenismo borghese contrapponendolo alla liberazione sessuale dell’epoca, mettendo in scena la crisi di una coppia agiata (Ugo Tognazzi e Senta Berger) stimolata a provare lo scambio di partner. La commedia si fa amarissima e sfiora il dramma, trovando il suo doppio speculare nel successivo Colpita da improvviso benessere (1975). Qui per inverso si assiste all’ascesa economica e all’imborghesimento di una pescivendola romana (Giovanna Ralli) la quale aspira agli status symbol della borghesia, specialmente alla moquette che nel film precedente i protagonisti avevano in ogni stanza di casa.
La donna giraldiana, sia borghese che popolana, aspira a una liberazione dai propri doveri coniugali e domestici, fino a sentire l’imperativo categorico di agire e ribellarsi al sistema maschilista. È quello che accade a Monica Vitti nel paradigmatico Gli ordini sono ordini (1972) dove viene incitata da una misteriosa voce che la esorta al riscatto. Ma la donna nel cinema di Giraldi, pur cercando una strada verso l’emancipazione e la rivoluzione del proprio sesso, spesso resta prigioniera del sistema maschilista come in La supertestimone (1971), commedia drammatica che si tinge di giallo in cui ancora una volta Monica Vitti da corpo e volto all’eterno femminino giraldiano, mentre Ugo Tognazzi incarna il soverchiante potere del maschio.