La repressione nella mente, la repressione del potere
Ambientato durante le festività natalizie del 1991 nella tenuta di Sandrigham – quando Lady Diana decise di separarsi dal principe Carlo e iniziare una nuova vita – l’ultimo film di Pablo Larraín, Spencer, può apparire come un classico lavoro su commissione, utile al regista cileno per radicare i propri rapporti con il cinema mainstream europeo e hollywoodiano, ma lontano dalla sua poetica, spesso incentrata sulla Storia e sulla contemporaneità del suo Paese.
Nonostante ciò, ci troviamo di fronte a un’opera meno impersonale di quanto possa sembrare, in cui l’autore latinoamericano è riuscito a introdurre alcuni punti tematici e stilistici dei suoi titoli precedenti.
Questo a cominciare dalla scelta di adottare il punto di vista della protagonista, relegando gli altri personaggi sullo sfondo e cercando di calare lo spettatore nella psiche, nella percezione e nei sentimenti della giovane donna. Un’operazione in questo senso analoga a quella di Jackie, anch’essa incentrata sull’interiorità della protagonista: ma se nel film su Jacqueline Kennedy si puntava soprattutto su una narrazione destrutturata e frammentata, in Spencer la concentrazione del cineasta si dirige piuttosto su un’atmosfera inquietante e sinistra, data da una serie di figure spettrali, da una regia fredda e a tratti geometrica e dalla colonna sonora tendenzialmente disarmonica di Johnny Grenwood. Tutti elementi che immergono lo spettatore nel senso di malessere e prigionia provati dalla protagonista, insofferente verso le rigide regole di Corte e soffocata dal controllo che la Corona cercava di esercitare nei suoi confronti. Una sensazione di repressione e oppressione che viene sottolineata dai diversi riferimenti alle strutture militari (soldati, fili spinati, il Maggiore dell’esercito che incombe su di lei) e alla cucina, che qui rappresenta tutto ciò che Diana rigetta (la principessa soffriva di bulimia).
E anche se la pellicola adotta una prospettiva soprattutto intimista e psicologica, la presenza degli organi repressivi dello Stato sopraccitati rimanda anche al modo violento con cui il potere esercita la sua forza sull’individuo e sui cittadini, in quella che è una riflessione sociopolitica analoga a quella dei film precedenti del regista, in primis la trilogia sulla dittatura di Pinochet, dove tutto ciò era ancora più centrale ed evidente. In fondo, s’inserisce in tale direzione anche la vicenda stessa di Lady D., oppressa da una famiglia che è il simbolo stesso del potere e dello Stato.
Tutti elementi che dimostrano quanto Larraín sia riuscito a rendere personale un soggetto piuttosto distante dal suo cinema, realizzando così un’opera di alto valore che si fa perdonare i didascalismi e le occasionali forzature presenti soprattutto nella sceneggiatura di Steven Knight.