Fuga verso casa
Cosa significa “casa”? Inizia con questa domanda Flee, riflettendo sul significato di una delle parole più elementari e pronunciate. Eppure la risposta non appare così scontata e può portare a considerazioni spesso dolorose.
È il caso di Amin Nawabi, il protagonista. Docente universitario di 36 anni, vive in Danimarca e cerca di rievocare con l’amico regista Jonas Poher Rasmussen i suoi trascorsi, le sofferenze che ha patito e la sua interminabile fuga.
Costretto a lasciare il proprio paese d’origine, l’Afghanistan, sconvolto dalla guerra civile e ormai inospitale per la sua famiglia, ha intrapreso un viaggio che lo ha condotto prima in Russia e infine in Danimarca, dove ha potuto costruirsi una nuova vita. È proprio in terra scandinava che ha conosciuto Rasmussen, il quale ha deciso di intervistarlo per portare alla luce la sua storia. Lo ha fatto in una maniera insolita, ricorrendo all’animazione per raffigurare una realtà documentaria, ribaltando l’uso più comune di quella tipologia d’immagine. La scelta dell’animazione garantisce un filtro, una protezione al protagonista, per non svelare la sua reale identità, ma cattura anche la natura intimista del film, che sorge proprio dal disegno e dai tratti della matita nei titoli di testa.
Amin ha tenuto nascosta per molto tempo la propria storia, alle persone che ha conosciuto e anche a sé stesso, per non compromettere il presente che lui e le sorelle (seppur distanti) si sono costruiti con fatica. La sua non è stata solo una fuga fisica, ha dovuto lasciarsi alle spalle le proprie origini, la famiglia e persino parte della sua anima e della sua identità, tanto che non riesce quasi più a distinguere la calligrafia e la lingua nei suoi vecchi quaderni. È tramite il cinema che Amin cerca di fare i conti con il passato, liberandolo dalla prigione che il tempo aveva costruito sino quasi a dissolverlo. Il racconto prende le forme del flusso di coscienza, un diario personale che scava nella memoria e che la trasforma in immagini animate che fluttuano tra il presente e i flashback.
Tra pubblico e privato, Flee parte dalla vicenda personale di Amin per delineare la ciclicità della Storia, raccontando l’eterno dramma dei profughi con sensazioni, ricordi, emozioni dirette, senza retorica o intenti didascalici. Ruota principalmente attorno al concetto di identità, che per troppo tempo il protagonista è stato costretto a nascondere: giunto in Russia ha dovuto celare le proprie origini, in Danimarca gli è stato intimato di fingersi orfano e infine ha dovuto tenere segreta la sua omosessualità, che in Afghanistan non era minimamente concepita e tollerata. Il viaggio di Flee, che si concretizza con l’ultima e significativa inquadratura, è dunque un viaggio verso casa, non tanto come luogo fisico ma come un posto dove poter essere sicuri e liberi. Dove poter essere sé stessi.