Se si pensa alle difficoltà e al placement “di nicchia” che trovano i film a tematica LGBTQIA+ in Paesi teoricamente più avanzati in termini di libertà civili, si può facilmente intuire come la situazione non sia affatto rosea per tutti gli altri.
La Corea del Sud è un Paese altamente sviluppato dove non c’è, ad esempio, una legge nazionale che vieti la discriminazione basata sull’orientamento sessuale. Non che altri tipi di discriminazione siano combattuti meglio: la Corea ha regolarmente un tasso di disuguaglianza di genere da far accapponare la pelle.
È in questo contesto profondamente eteronormativo e patriarcale che si deve situare A Distant Place, secondo lungometraggio di Park Kun-young. Il protagonista Ji-woo fa il pastore nella campagna coreana, vive con la sua bambina Seol, che lo chiama “mamma”, e a stretto contatto con la famiglia dei proprietari della fattoria. Due arrivi a breve distanza sconvolgono la pace idilliaca della famiglia: il primo è quello di Hyun-min, il suo amante che vive a Seoul e fa il poeta, e poco dopo quello della sorella gemella Eun-yung, vera madre di Seol.
Questo è un film dove non c’è un vero cattivo; sono i sentimenti dei protagonisti stessi a consumarli da dentro e accendere il conflitto tra di loro. Ji-woo dice apertamente di essere andato ad abitare in campagna per allontanarsi dalle pressioni e i pregiudizi che lo opprimevano in città: basta pochissimo, ad ogni modo, per realizzare che la vergogna e la paura se le è portate dietro.
A Distant Place fa un ottimo lavoro nel dipingere l’omofobia internalizzata di Ji-woo (che peraltro uno spettatore italiano non faticherà a trovare familiare). Non attacca la questione di petto, ma ne delinea con chiarezza la presenza opprimente in un paesaggio che rimane sereno, idilliaco; le pecore e le mucche continuano a pascolare mentre il dramma di Ji-woo e della sua famiglia si srotola quietamente, un boccone amaro alla volta.
Altri passaggi della trama sono meno articolati – la storia di Eun-yung tra tutti – e a volte sembra che la forma visuale del film, impeccabile e lussureggiante, abbia la meglio su alcuni aspetti secondari della storia. Il suo punto di forza è proprio lo sguardo lucido su come la pressione che si pone su sé stessi sia il proprio peggior nemico anche quando tutto, potrebbe, e dovrebbe, andare bene.
A Distant Place è stato proiettato al BFI Flare, il festival LGBTQIA+ del British Film Institute. Mentre i film anglofoni sono ancora una grossa fetta del programma, è interessante vedere come i curatori stiano facendo uno sforzo per trovare voci queer in altre parti del mondo e portarle alla luce – un lavoro veramente importante, specialmente quando vengono da paesi parecchio indietro coi tempi su queste tematiche.