Diari filmati
Il centenario della nascita di quello che è stato uno dei più grandi – forse IL più grande – intellettuale italiano del Dopoguerra ha generato, per fortuna, decine di articoli, libri, mostre e rassegne (tra cui la riproposizione dei film restaurati). Un luogo meno frequentato della filmografia di Pier Paolo Pasolini è quello documentario, soprattutto i diari di lavorazione di alcuni film, che invece permettono di illuminare alcune zone poco esposte del suo pensiero come artista e anche, forse, di dare uno sguardo più profondo all’uomo.
Non che si sia mai tirato indietro Pasolini dal dire le cose che pensava e sentiva, a partire proprio dai due documentari degli anni ’60 La rabbia – realizzato nel ’63 assieme a Giovannino Guareschi – e Comizi d’amore del ’64, ma i tre film di appunti che girò successivamente sembrano molto interessanti ancora oggi, alla luce delle celebrazioni, perché poco visti nonostante tutti e perché capaci di dire qualcosa in più, come se Pasolini parlasse di sé e del suo cinema in modo trasversale.
Il primo è Sopralluoghi in Palestina per Il vangelo secondo Matteo, realizzato durante la lavorazione del suo capolavoro ma distribuito l’anno dopo, nel 1965. Vede Pasolini in giro per la Palestina assieme a Don Carraro alla ricerca di un contatto il più possibile autentico con una realtà geografica e culturale al fine di realizzare le riprese del film, che poi si svolsero nel meridione italiano. Pasolini guarda i luoghi e chi li abita, confronta il lato arabo e quello israeliano, l’arcaicità contro la modernità, si lascia andare a un certo esotismo nostalgico ma dà corpo a una precisa visione del mondo e dell’arte, ancora più interessante in quanto nasce dallo scacco, dalla sconfitta dello sguardo e del pensiero per mano della realtà. Uno scacco che si amplia e diventa quasi – ci sia concessa un’iperbole – esistenziale coi due successivi film di appunti.
Appunti per un film sull’India è realizzato nel ’67/’68 per gli speciali tv del TG1 e vede il regista partire dal pretesto di un’opera da girare tra Bombay e Nuova Delhi per misurare la tenuta del Mito alle prova con la modernità, ma anche – almeno allo sguardo dello spettatore odierno – per capire il modo in cui la svolta del cinema di Pasolini verso l’arcaismo e la mitologia ha avuto origine, le sue radici intellettuali e si vede il modo in cui l’approccio alle culture è cambiato in quattro anni: le persone che in Palestina erano quasi tenute a distanza qui fanno parte del gioco, sono chiamate ad aiutare l’artista nel suo gesto di comprensione, e che alla base ci sia un altro scacco è meno importante del rapporto con la concretezza della ricerca.
Una concretezza ancora più radicale in Appunti per un’Orestiade africana, perché sembra usare gli appunti come pretesto per un viaggio di conoscenza artistica e umana ancora più profondo. Pasolini mescola tre segmenti: un viaggio in Africa alla ricerca di luoghi e volti per il progetto che dà il titolo al film, un dibattito con studenti africani residenti in Italia da cui trarre idee proprio sulla possibilità di adattare Eschilo in Africa e una session jazz che reinterpreta la tragedia e trasporta la cultura africana oltreoceano, col supporto musicale di Gato Barbieri: in questi Appunti, il confronto tra civiltà ed epoche, interesse culturale e fascinazione “orientalista” è continuamente ripensato proprio grazie alla forma sgraziata del taccuino, che invece nel film indiano aveva preso un andamento più organico. Una forma che proprio nella sua apparente disorganizzazione rivela elementi critici indispensabili per tornare a guardare i suoi film con un altro sguardo, perché anche se il Vangelo non sarà fatto in Palestina e i film in India e Africa non saranno mai realizzati hanno dissodato il terreno per poter far germogliare film come Medea e la Trilogia della vita.