Arthur Penn fra transizione e New Hollywood
Ricordato soprattutto per film come Gangster Story e Piccolo grande uomo, Arthur Penn è stato uno dei registi chiave per la nascita della New Hollywood, che ha contribuito a “fondare” affrontando tematiche vicine alle contestazioni giovanili dell’epoca e introducendo alcune innovazioni linguistiche provenienti dal cinema europeo, in particolare dalla Nouvelle vague.
Nato a Philadelphia nel 1922, Arthur Penn esordisce nella regia cinematografica alla fine degli anni Cinquanta, un momento di transizione per Hollywood, che proprio in quel periodo stava attraversando la crisi dello studio system e vedendo emergere gradualmente un cinema più moderno e innovativo. Il primo film dell’autore statunitense fu dunque Furia selvaggia – Billy Kid, western realizzato nel 1958 dopo una lunga gavetta televisiva e quasi in contemporanea con i suoi primi successi come regista teatrale (il palcoscenico è stato il suo primo interesse e sarà la sua carriera parallela per tutta la vita).
Ad accomunare Arthur Penn con i ribelli degli anni Sessanta e Settanta non è quindi né l’età anagrafica né il percorso artistico/culturale (molti dei registi della Nuova Hollywood arrivano dalle scuole di cinema e/o dalle produzioni indipendenti destinate al pubblico giovane), ma piuttosto la visione degli Stati Uniti come un Paese violento, oppressivo e ipocrita.
Pur essendo vicino alle istanze ideologiche dei giovani dell’epoca, il cineasta di Philadelphia riesce al tempo stesso a cogliere i limiti di quella generazione e a raccontarne le sconfitte, come dimostrano opere quali Gangster Story (1967), Alice’s Restaurant (1969) e, in parte, Gli amici di Georgia (1981). Nel primo titolo, i banditi Bonnie e Clyde sono descritti come degli adolescenti insoddisfatti delle loro vite che si danno alla criminalità come atto di ribellione. E anche se l’opera sta dalla loro parte evidenziando la crudele violenza delle autorità (si veda la sparatoria finale, girata in ralenti per evidenziare il massacro perpetuato dalla polizia), il regista e gli sceneggiatori Robert Benton e David Newman non rinunciano a sottolineare in più occasioni l’immaturità dei protagonisti (si pensi al modo cialtronesco con cui eseguono le rapine o all’impotenza di Clyde). In Alice’s Restaurant il tema della contestazione è affrontato in maniera più diretta, in quanto la vicenda è ambientata in una comune hippie, nei confronti della quale Penn pone uno sguardo affettuoso ma anche melanconico, capace di scorgere i problemi e lo spaesamento di quella realtà. Opera di un regista maturo che cerca di confrontarsi con i decenni passati, Gli amici di Georgia racconta la storia di quattro amici dall’adolescenza all’età adulta. Qui i ragazzi compieranno un percorso nel quale i loro ideali e le loro aspirazioni giovanili dovranno fare i conti con una serie di traumi pubblici e privati che modificherà almeno in parte la loro visione del mondo, rendendoli più maturi e capaci di riconciliarsi con la generazione precedente (si pensi al rapporto tra il personaggio centrale e suo padre).
Indubbiamente moderna e coerente con la sua lucidità di sguardo è la costante revisione dei miti americani e dei generi cinematografici che Penn ha perpetuato nel corso della sua carriera. Ne sono una dimostrazione i western Furia selvaggia (1958), Piccolo grande uomo (1971) e Missouri (1976), opere molto diverse tra loro ma legate dalla comune revisione del mito della frontiera. In Furia selvaggia Penn rilegge il leggendario Billy the Kid, descritto non come un bandito scaltro e glorioso, ma come un ragazzo nevrotico e tormentato, in quella che sembra essere una sorta di versione western di Gioventù bruciata (1955), dove lo spazio dato all’approfondimento psicologico sembra essere pari o superiore a quello lasciato all’azione e all’avventura. Conosciuto soprattutto come western revisionista a favore dei nativi americani, Piccolo grande uomo è un film “moderno” anche nell’approccio registico, che alterna il senso per l’epica e per l’avventura tipici del genere di riferimento a un’ironia che sembra farsi gioco del genere stesso, come dimostrano le scene del saloon e dell’attacco alla diligenza, girate entrambe con un piglio umoristico molto vicino alla parodia. Ritratto di una società fondata sul sopruso e sulla violenza, Missouri è un anti-western melanconico dove il regista lascia molto spazio al privato dei personaggi e, soprattutto, rinuncia quasi completamente all’epica e all’azione.
Tutti elementi che spesso si riflettono anche nello stile registico e visivo di Penn, caratterizzato da una violenza piuttosto esplicita e da un’alternanza tra scelte linguistiche moderne provenienti dall’Europa e una narrazione più lineare tipica del cinema classico hollywoodiano. Se titoli come Mickey One (1965) e Gangster Story si ispirano chiaramente alla Nouvelle vague francese per il frequente ricorso al montaggio discontinuo e, il primo in particolare, per una certa destrutturazione del racconto, altri film risultano invece molto più classici, come per esempio La caccia (1966), opera che – violenza e critica sociale a parte – ricorda da vicino i mélo à la Kazan del decennio precedente. Spesso, però, le opere di Penn si collocano in una sorta di via di mezzo tra i due tipi di cinema, come dimostra Anna dei miracoli (1962), dove una narrazione chiara e lineare è talvolta interrotta da flashback onirici girati in video e contrassegnati da jump cut di matrice europea.
Tutti fattori tematici e formali che, da un lato, rendono evidente quanto Penn sia stato un regista di transizione – come dimostrano anche percorso artistico ed età anagrafica – ma che dall’altro coincidono in buona parte con le caratteristiche della stessa New Hollywood, un tipo di cinema esplicito nei contenuti che ha introdotto diverse novità linguistiche senza rinunciare completamente ad alcuni elementi tipici della classicità.