Lo sguardo di Luma, nel cerchio del destino
Sin dai primi cortometraggi d’esordio, il cinema di Andrea Arnold ha mostrato un realismo dedito all’osservazione e un’attenzione verso gli animali che sembrano trovare uno sbocco naturale e una confluenza in Cow, primo documentario della regista, presentato al Festival di Cannes e distribuito su MUBI.
La cineasta britannica ha seguito per circa quattro anni la vita di Luma, una mucca da latte di un allevamento del Kent, osservandola e riprendendola nelle sue attività quotidiane. La sua è un’esistenza segnata dalla ripetitività e dal controllo dell’uomo che la nutre, la munge, la fa accoppiare e coordina ogni suo movimento.
Privo di intenti illustrativi o didascalici, Cow è un documentario di pura osservazione, in cui la macchina da presa pedina Luma ponendosi all’altezza del suo sguardo, come se fosse un’altra mucca o la sua estensione. Non è solo il punto di vista ad aderire, ma anche la percezione stessa di ciò che accade e delle azioni dell’uomo, che rimane quasi sempre parzialmente o totalmente fuori campo. Lo scorgiamo in lontananza, ne cogliamo i gesti, lo vediamo mentre estrae il vitellino dall’utero della madre per poi separarlo da lei poche ore dopo. Non ci sono, oltre a qualche stralcio di conversazione, commenti o interventi della regista o di terzi, c’è solo lo sguardo su e di Luma ed è proprio il suo sguardo vivo e intenso a fare da contraltare alle barriere insondabili che la confinano e alle tetre macchine. Quello sguardo che cerca il vitellino, che guarda verso la macchina da presa, che corre lungo lo spazio aperto dando l’impressione di rivolgersi al cielo durante una notte puntinata di stelle e luci artificiali, che si riflettono nei suoi occhi.
Le immagini del cielo si intervallano fugacemente, solcate da aerei o attraversate da una mongolfiera, a rimarcare l’intrinseco desiderio di fuga e libertà. Ma sottolineano anche la costante presenza umana in una natura contaminata in ogni suo aspetto.
Cow è una parabola che ricorda quella dell’asino Balthazar portato sullo schermo da Robert Bresson. Come in quel caso, è il corpo dell’animale ad assorgere a protagonista, scandagliato dalla macchina da presa che indugia sullo sguardo mettendone in risalto la soggettività, a cui viene resa piena dignità malgrado la mesta esistenza, racchiusa in un moto circolare e conchiuso in se stesso. Alla chiusura del cerchio l’epilogo appare inesorabile, previsto, ma ugualmente emozionante, deciso dalla linea di un destino inscalfibile.