Uno spettro si aggira per l’isola: il realismo della resistenza
La storia di Ghost of Tsushima inizia con una sconfitta: la disfatta di Komoda, la spiaggia della carneficina in cui le milizie giapponesi soccombono allo sbarco dell’esercito mongolo sull’isola di Tsushima, prima tappa della loro conquista in terra nipponica. E dopo aver toccato il fondo si può solo risalire.
Così, ha inizio il cammino del redivivo Jin Sakai per difendere la sua gente e per imparare a dare un nuovo senso al concetto di onore, così come a quello di comunità. Ghost of Tsushima (d’ora innanzi GoT) non è solo la storia di un guerriero ma è anche la fotografia di un’isola e del suo popolo in tempo di guerra.
L’avventura in terza persona della casa di produzione statunitense Sucker Punch è più simile a un titolo Rockstar che all’ultimo God of War (sebbene ci siano più punti di contatto), proprio per la stessa vocazione al realismo, oltre che delle ambientazioni, anche del contesto di gioco. In GoT non ci sono poteri magici e non ci sono creature fantastiche. E anche quando le circostanze fanno pensare a una presenza ultraterrena, o restano avvolte nel mistero (o nell’ebbrezza), oppure nascondono sempre una spiegazione e un’impronta umane. Nelle parole di Sakai in uno dei tanti dialoghi che avvengono mentre attraversiamo gli scenari a cavallo: «la disperazione può trasformare le persone in demoni». Al giocatore è data la possibilità di resistere all’invasore usando strategie diverse: affrontare apertamente il nemico, secondo l’idea di onore che caratterizza i samurai o, all’esatto opposto, agire di soppiatto e colpire il nemico alle spalle, in maniera – che il gioco non mancherà di problematizzare – efficace ma disonorevole. Quando Jin decide di agire nell’ombra e attaccare il nemico alle spalle, aggiudicandosi la nomea di “spettro di Tsushima”, abbandona la strada dell’onore in favore di un pragmatismo dell’azione più vicino alla sensibilità del popolo che a quella del mondo aristocratico da cui egli deriva.
L’esplorazione dell’isola è un piacere unico e la cosa sorprendente – che probabilmente GoT apprende proprio dai titoli open world che lo precedono – è la capacità di far passare il videogiocatore da una circostanza a un’altra come se fosse il caso a guidarlo: una traccia di sangue per terra, un indizio da seguire, un urlo o del fumo in lontananza che attirano la nostra attenzione. Le missioni secondarie, un po’ ripetitive, sono un ottimo mezzo per favorire l’esplorazione e dare un respiro corale al racconto. Il mondo di gioco è talmente accurato e vivo che gli si possono perdonare certe imperfezioni, come quando cavalli o altre fiere che popolano l’isola ci impediscono di vedere correttamente alcune sequenze cinematiche: oltre a strappare un sorriso, compartecipano, consapevolmente o meno, a creare un mondo che pare vivere di vita propria.
Colpisce inoltre l’accuratezza meteorologica: i luoghi dell’isola cambiano aspetto pressoché ogni volta che li visitiamo, perché ogni volta sono diverse le condizioni del tempo, le luci, i riflessi, l’atmosfera. L’impressione è quella di un gioco ben calibrato: all’essenzialità del racconto – lineare per lo più e con la sua buona dose di combattimenti – è affiancata l’estrema complessità del territorio che ci circonda; un ambiente vasto, particolareggiato e selvatico. E così le missioni facoltative e l’ambiente di gioco, che parrebbero dettagli accessori, da mero fondale diventano protagonisti. L’isola stessa come portatrice di una poetica: la storia (come quella con la S maiuscola) è fatta anche dal racconto delle vite dei singoli individui e del paesaggio.