Lo sguardo strabico
C’è un dentista affermato, Massimo, interpretato da Elio Germano. Ha una famiglia perfetta, moglie e due figlie, una bella casa. Un giorno però scende in cantina e trova una ragazza legata, rapita. Ma chi è? E soprattutto, chi è stato?
Damiano e Fabio D’Innocenzo, dopo il passaggio nel concorso veneziano, sfidano le sale nella complessa era pandemica, nell’Italia senza una politica culturale che le difenda. Lo difendono loro, il cinema, portandovi un film che non si arrende al passaggio diretto su piattaforma. Un film piccolo, una miniatura di 90 minuti, una singola favolaccia, ovvero uno spunto esile che potrebbe essere un cortometraggio. E sono attesi dai fucili puntati degli haters conquistati sui social. Il classico progetto che rischia di risolversi in fallimento, e invece…
Invece America Latina è qualcosa di completamente diverso rispetto al cinema italiano corrente. È America, il nome di un sogno come l’American Dream, e Latina, come la città laziale che rappresenta la caduta nel concreto, nel tangibile, nella degradazione. I gemelli registi, dopo La terra dell’abbastanza e Favolacce, due titoli diversi tra loro, cambiano ancora tono e modo ma si confermano tra i pochi in grado di lavorare sulla e nella immagine: America Latina è un film blu come la superficie dell’acqua salmastra della piscina del dentista, ma è anche verde come il colore della tossicità, dell’avvelenamento della vita borghese, cromatismo che a un certo punto diventa prevalente. Il racconto si muove su una tavolozza di colori espressionisti, perché non è mai alla realtà che si riferisce, anzi viene bandito ogni possibile realismo. È nella testa di Massimo che si gioca la partita. Chi è la ragazza rapita? Cosa è successo? Si può rispondere solo accettando le regole e lasciandosi andare alle spire del film mentale per spiegare le contrapposizioni evidenti che questa estetica produce, gli opposti tagliati con l’accetta, il sopra e il sotto, la casa e la cantina. Lo decreta perfino la locandina: siamo dentro un cervello che si incrina.
È così che Massimo trova il suo Babadook: l’ipotesi di un rapimento nel seminterrato, che forse è vero e forse no, e innesca un percorso di delirio allucinato che conduce all’agnizione finale, quella che fa rileggere tutto il racconto. Ma il punto qui, non è il plot twist, è lo scivolamento progressivo nella follia, che passa per la destabilizzazione della famiglia, il suo terremoto nella forma tradizionale che conosciamo, già dall’inizio falsa e posticcia. Basti guardare alla rappresentazione della madre e le figlie del dentista: da principio sono figure sciocche e ultra-patinate, anche troppo, “incredibili” nel senso di non credibili. Ecco come opera l’occhio dei D’Innocenzo: attraverso l’eccessiva plasticità delle figure essi insinuano un dubbio, lanciano una possibilità alternativa. Dicono che la vita perfetta è un’allucinazione. D’altronde anche i punti interrogativi scritti da Elio Germano pongono, letteralmente, delle domande.
America Latina, dunque, attraverso il film mentale, esegue una ri-forma della presunta “normalità”: è Haneke rivisto da Kafka (anche lui scrisse una Amerika); è la metà oscura di The Father di Florian Zeller, ovvero l’assunzione della prospettiva di una mente in difficoltà perlustrata in focalizzazione interna. Insomma, i registi costruiscono un discorso di sola e pura immagine. Cinema ambizioso? Sì, e allora? Banale? Certamente no, perché oggi una forma narrativa “scura” ci serve. Al contrario di troppi film della buonanotte, i fratelli fanno cinema spiazzante, disturbante. Un tempo si diceva cinema maledetto. Non per una posa ma per uno stile, perché hanno uno sguardo strabico.