La verità negoziabile
Dopo la produzione europea di Tutti lo sanno, il regista iraniano Asghar Farhadi torna in patria con Un eroe, film con cui prosegue la sua poetica cinematografica, segnata da storie che partono da azioni ambivalenti e verità omesse per poi analizzare la natura umana e le relazioni sociali, ponendo questa volta l’accento sulle istituzioni e i media del proprio Paese.
Il protagonista è qui Rahim Soltani, un detenuto per debiti che durante due giorni di permesso ha l’occasione di pagare il suo creditore e restare fuori dal carcere grazie a una borsa piena di monete trovata dalla compagna. L’uomo, però, decide all’ultimo momento di restituire quella borsa alla legittima proprietaria, un gesto che lo porrà al centro dell’attenzione mediatica, come cittadino modello, fino all’emergere di altri dettagli che ribalteranno la situazione.
Anche se la regia risulta alquanto efficace nella sua asciuttezza e nel suo realismo, il vero punto di forza del film risiede nella sceneggiatura, davvero abile nel cogliere le ambiguità dei vari personaggi, riuscendo per questo a realizzare un ritratto ampio della società contemporanea, iraniana ma non solo. Così, se l’ingenuità, la disperazione e un occasionale – e giustificabile – opportunismo portano il protagonista a tenere un comportamento a tratti poco limpido, anche le altre figure umane e istituzionali della vicenda dimostrano di essere pronte a mentire e a compiere azioni ambivalenti per i più disparati motivi: la compagna del protagonista per salvare il suo amato, l’associazione di beneficienza per non perdere credibilità, i dirigenti del carcere per mostrarsi giusti e compassionevoli di fronte all’opinione pubblica.
In tale direzione, la presenza dei mass media – nuovi e tradizionali – gioca qui un ruolo fondamentale, in quanto influenza e indirizza l’agire di tutti i personaggi, tra sospetti che nascono da commenti sui social, video da pubblicare o bloccare, comunicati stampa da diffondere e interviste televisive da rilasciare. Tutti elementi dai quali emerge un Paese – e più in generale una società – succube dei meccanismi mediatici e in cui tutto è negoziabile, a cominciare dalla verità, da trattare e ritrattare appena conviene.
Questo in un film che grazie a una messa in scena vigorosa ma asciutta e a una scrittura acuta e sottile riesce a coinvolgere lo spettatore senza puntare tutto sull’emotività, ma ponendo piuttosto uno sguardo distaccato e mai giudicante sugli uomini e sui loro comportamenti, dominati sì dall’ambiguità, ma comunque riconducibili a un più ampio contesto sociale del quale sono perlopiù vittime e prigionieri.