La grande scimmia sul palco
In Frankenstein (1931) di James Whale c’è un momento in cui il mostro, finalmente in vita, viene presentato soffermandosi attentamente sui tratti della sua corporalità, tra possanza e delicatezza, dolcezza e rudezza.
Appena egli giunge vivo e reattivo di fronte alla macchina da presa, la prima cosa a impattare con lo sguardo degli spettatori è il suo volto: con un montaggio analitico e tre tagli, Whale stringe sempre più sui tratti minacciosi e scultorei della creatura. Quando questa riesce a dirigersi in direzione di Frankenstein, la sua ombra si allarga ed è come se si separasse dal corpo, individuando la doppiezza contrastante, il bene e il male, la luce e l’oscurità. I dettagli successivi più interessanti sono quelli legati al gesticolare delle sue mani: quando il suo creatore cerca di impartirgli dei comandi, il mostro recepisce a tratti e poi comprende. I gesti di quelle mani ci avvicinano alla natura più umana della creatura, ci fanno capire come nella scissione dalla razionalità ci sia il fulcro del terrore. L’obiettivo principale è quello di rappresentare l’impulso primordiale, l’incapacità di controllare, l’inesistenza del pensiero. Un’immagine efficacissima sarà infatti quella nella quale il mostro ucciderà per errore la piccola Maria, dove l’orrore apparirà in tutta la sua forza attraverso un gesto vuoto, imitativo e appunto, per un essere umano, improponibile.
Su questo contrasto tra istinto e ragione, tra pulsione e autocontrollo, si incentra una buonissima parte dell’horror americano della prima metà degli anni Trenta. Quello che emerge è un terrore che scaturisce dal conflitto tra quelle due istanze, in quanto si preoccupa di rappresentare il modo in cui la parte istintuale della natura mette spesso in crisi quella raziocinante. Facciamo alcuni altri esempi: ne Il dottor Jekyll (1931) di Rouben Mamoulian, come scrive Jean Louis Leutrat nel suo Vita dei fantasmi. Il fantastico al cinema, “al movente scientifico dello scienziato se ne sovrappone un altro, pulsionale, allo stesso modo in cui ad Hyde si sovrappone Jekyll”. In questo senso è emblematica la rappresentazione che oppone l’uomo moderno e vittoriano impersonato da Jekyll a quello neandertaliano e primitivo figurato da Hyde. Anche in Murder by the Clock (1931) di Edward Sloman l’istinto selvaggio, non represso e difficilmente contenibile, imposta il personaggio di Philip Endicott: il suo ritardo mentale, la sua follia, libera la forza pulsionale, facendolo presto trasformare in un efficace strumento di morte. La cosa interessante in questo caso è come la vamp e subdola Laura se ne serva ingannandolo con una semplice e innocua bugia alla quale non crederebbe un bambino, ma che invece riesce facilmente a beffare un essere che ha atteggiamenti guidati più dall’istinto animale che dal raziocinio. Ne Il dottor Miracolo (1932) di Robert Florey, lo scienziato rappresenta l’istanza dell’assoluto razionale mentre il suo aiutante sembra tanto una mediazione verso la dimensione completamente animalesca del gorilla Erik. Questa tripartizione accentua ancor più la zona della pulsione istintiva quando, nel finale, il dottore, e poi immediatamente dopo il suo servitore, vengono uccisi: questo rapido procedere della narrazione, con Erik che rimane l’unico dei tre in vita e rapisce la giovane Camille, si impone come una sorta di regressione dall’umano all’animale e dunque come una netta imposizione della bestia, che si conferma un essere terrorizzante e pericoloso. Inoltre, la sequenza finale nella quale si avventura con la sua preda per i tetti di Parigi prelude al film che l’anno successivo metterà a tutto volume questa specifica tematica: King Kong (1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack. Questo capolavoro fa infatti un ulteriore passo avanti. Come sostiene Alberto Abruzzese sulla grande scimmia protagonista del film, “la potenza del suo travestimento riesce a riportare l’esperienza metropolitana e i suoi modi di esprimersi in una zona senza spazio e senza tempo: la nuda vita dell’essere umano, là dove le parole gli mancano e dunque là dove può resistere e ribellarsi ai linguaggi sociali che lo parlano”. Se infatti fino a quel momento le tensioni del terrore animalesco erano state in qualche modo integrate in scenari perlopiù abitati da esseri umani modernamente civilizzati e con l’istanza pulsionale che costringeva gli apparati razionali di quegli stessi uomini a vaporizzarsi, in King Kong l’animale è ben esposto, enorme, ma in un territorio che gli appartiene, nel quale tutto è animalesco e istintivo, mentre la presenza umana diviene – almeno inizialmente – un mero dettaglio ai fini dello sviluppo del conflitto tra le due istanze principali. In questo senso il contrasto natura-progresso, uomo primitivo-uomo civilizzato, si esprime in un luogo dove le strutture dei primi sovrastano quelle dei secondi, portando questo scontro all’ennesima potenza. Quello che avverrà nell’ultima parte del film sarà solamente una forzatura che il razionale proverà a esercitare sull’irrazionale, provocando un violento e disastroso cortocircuito tra i confini che delineano le zone espressive dell’uno e dell’altro.
Il cinema horror americano dei primi anni Trenta prova dunque a riflettere su come la dimensione più aggressiva degli esseri viventi possa terrorizzarci nel momento in cui si pone in netto contrasto con quell’idea di progresso tipica della società occidentale, forse perché risveglia in noi quello che in buona parte risulta essere più naturale del nostro stesso raziocinio: l’istinto primordiale. Come scriveva d’altronde Sigmund Freud ne Il disagio della civiltà, “la civiltà domina […] il pericoloso desiderio di aggressione dell’individuo, infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da una istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata”. Ma qualsiasi animale costretto in cattività, appena avrà la possibilità di liberarsi, darà inevitabilmente sfogo a tutta la sua potenza animalesca.