La solitudine del giornalista
Sottopagati, stiracchiati, in cerca di visibilità, alienati. È questa l’immagine dei giornalisti (soprattutto in Italia) nel XXI secolo. In The French Dispatch, nuovo delicatessen di Wes Anderson, si parla di un’epoca in cui si veniva pagati a parola, dove quella del giornalista era una figura contestata e moralmente assediata ma dignitosa e rispettata.
Nonostante negli anni ’70 il gonzo journalism di innovatori come Lester Bangs, elevava la critica a forma d’arte, nell’arco di pochi anni quell’atmosfera magica si dissolse. In fondo qual era la differenza tra la sua recensione su The Marble Index di Nico e Nova Express di William Burroughs?
Così è per Wes Anderson che nei tre capitoli in cui è diviso il film, ci fa assistere visivamente a tre articoli scelti dall’archivio del French Dispatch (una versione tutta personale del reale New Yorker), per commemorare la dipartita di Arthur Howitzer Jr (Bill Murray), caporedattore della rivista nonché fil rouge tra i migliori giornalisti della sua epoca in una cittadina fittizia francese. E allora tra la storia di un artista psicopatico e la sua secondina, il rapimento del figlio del commissario di polizia e la cronaca non troppo neutrale di una rivolta studentesca, per l’elogio funebre sotto forma di numero conclusivo del magazine, Wes Anderson ci spinge oltre lo specchio che anche Alice attraversò. È una danza macabra e gioiosa formata da una giostra di personaggi terribilmente umani anche se abbozzati, interpretati da un cast corale che solo Robert Altman oltre Anderson avrebbe saputo dirigere con così tanta delicatezza: da Benicio del Toro a Edward Norton, passando dal sempre presente Owen Wilson a Tilda Swinton e Timothée Chalamet.
Se, per dirla con Fellini, la vita è una festa e va vissuta, qualcuno però questa vita deve raccontarla e porsi come spettatore al di fuori del tempo. “Ogni grande bellezza nasconde grandi segreti” viene detto nel film. Forse sarebbe più giusto dire che ogni grande bellezza nasconde una grande solitudine ed è quella del giornalista. In The French Dispatch c’è l’apogeo visivo del regista di Moonrise Kingdom, perfettamente funzionale a una maturità emotiva che può raggiungersi solo nell’attimo preciso e indefinito prima del crepuscolo.
“Un chant d’amour” dove solo gli aficionados che ci leggono, quei pochi lettori, giustificano a noi giornalisti il sorgere del sole.