La musica ti restituiva il tuo stesso battito, e ti permetteva di sognare. La gente doveva solo morire per la musica. Tanto muoiono per qualsiasi altra cosa, perché non per la musica? Muori per lei. (Lou Reed, Please Kill Me)
Presentato al Festival di Cannes e da poco più di una settimana nella disabitata piattaforma (almeno in Italia) di Apple TV+, The Velvet Underground è il primo documentario di Todd Haynes su uno dei gruppi alternativi più importanti nella la storia della musica.
Il regista non è nuovo a scorribande musicali: dai Carpenter a Bob Dylan passando per il meraviglioso Velvet Goldmine, un divertissement liberamente basato sulle figure di David Bowie e Iggy Pop e l’epoca del proto-glam rock. Suoi si rivelano anche i Velvet Underground, e chi conosce la loro musica sa che è materiale infiammabile.
L’operazione di Haynes pare somigliare a una ghost track della discografia del gruppo newyorchese, un modo per nulla semplice di presentare la band, il documentario sembra costruito per gli aficionados col rischio di annoiare tutti gli altri. Il suo unico difetto, forse, è che questo genere di omaggio verrebbe esperito meglio a puntate perché le due ore non si limitano alla storia del gruppo e al suo scioglimento, quanto a tutto l’ambiente di artisti che ne gravitavano attorno e all’incubatrice culturale che ha dato vita al loro sound. I cinefili singhiozzeranno alla visione di Jonas Mekas, e i lettori di Mojo si esalteranno tra le parole di La Monte Young, Jonathan Richman e Danny Fields, “personaggi usciti da un film di Fellini” che raccontano il maelstrom meraviglioso che era New York negli anni ‘60 dove tutti influenzavano tutti e, inconsapevolmente, davano il via a una delle stagioni culturali più interessanti della storia americana (e non solo). The Velvet Underground nella grazia stilistica ricorda l’equivalente cinematografico della Bibbia punk Please Kill Me, che non è altro che il testamento orale dei superstiti della scena artistica, sapientemente raccolto da Legs McNeil e Gillian McCain: dal proto-punk dei Velvet Underground fino alla morte di Sid Vicious citando Nevermind.
Il documentario non si concentra tanto sui pettegolezzi dell’epoca, sull’estromissione di John Cale, la megalomania di Lou Reed o il dimenticare qual era stato il motore che aveva spinto questi artisti a collaborare. Tutto ruota su come la band riesce a creare musicalmente ciò che Andy Warhol creava visivamente. Ma è anche un omaggio a New York e a un decennio che Todd Haynes non guarda con cancerogena nostalgia. Gli anni ‘60 non sono stati un abbaglio, i Velvet Underground hanno fatto davvero da canalizzatore per tutta la rabbia, il disagio e le pulsioni di un’intera generazione che non ingollava le soluzioni a buon mercato dei sixties, tra fratellanza simulata e copie sdrucite dell’I Ching. Le sottoculture, la tristezza, il disincanto dei figli cresciuti col terrore dell’atomica sarebbero esplosi un decennio dopo. I Velvet Underground sono stati un manifesto generazionale, una dolorosa lapide in marmo con su scritto ‘sogno americano’ e una musica che racconta l’apocalisse, la nostra piccola apocalisse personale.
Forse sono io che dovrei morire. In fondo, tutti i grandi del blues sono morti. Ma la vita va meglio, oggi. Io non voglio morire. Giusto? (Lou Reed)