Il dramma delle persecuzioni
Il paragrafo 175, articolo del codice penale tedesco (dell’ovest) che criminalizzava l’omosessualità, è rimasto ufficialmente in vigore fino al 1994. Prima della riforma del 1969, quando le condizioni della colpa vennero ridimensionate, migliaia di uomini finirono in prigione ogni anno.
Come si può immaginare, il soggetto di Great Freedom non è facilmente digeribile e si potrebbe prestare ad un approccio piuttosto trito. Per fortuna, il regista austriaco Sebastian Meise ha uno sguardo empatico e una prospettiva laterale al tema, già approfondito nel documentario del 2000 Paragraph 175, che si concentrava sull’uso della stessa legge durante il regime fascista.
Qui, il protagonista Hans Hoffmann (Franz Rogowski), è un uomo gay che viene incarcerato più volte nel corso degli anni. Entriamo in prigione con lui nel 1968, e sappiamo immediatamente che non è la prima volta: il suo compagno di cella Viktor Kohl (Georg Friedrich), in carcere a vita per omicidio, lo riconosce e lo accoglie senza sorpresa.
I suoi soggiorni in prigione sono almeno altri due, uno nel 1945 e uno nel 1957; il film salta ingegnosamente da una linea temporale all’altra, sottolineando tanto quello che cambia quanto quello che è rimasto lo stesso (in primis la “colpa” di Hans). A Meise servono pochi dialoghi per dipingere la storia centrale, che viene invece scavata e approfondita nella dinamica cangiante dei due protagonisti: Viktor, furioso e ostile, contro Hans, spesso rannicchiato in posizione fetale in una cella d’isolamento, si avvicinano e si allontanano in loop mentre passano i decenni. Non serve il trucco invecchiante per distinguere le epoche: Franz Rogowski riflette sul suo volto e sul suo corpo il peso degli anni e della persecuzione che ha subito per tutta la sua vita. È sì stoico, ma anche visibilmente esausto.
In Great Freedom non ci sono zenith di tensione o apici di emozione: Hans sta semplicemente cercando di resistere all’interno di un sistema volto a negare la sua esistenza. Sono i piccoli momenti e i piccoli gesti, fotografati in splendido chiaroscuro da Crystel Fournier, a fare la differenza.
L’efficacia di questo film è proprio nell’atteggiamento non invadente ed equilibrato verso gli eventi che racconta. Questa non è una storia che ha un inizio e una fine, ma piuttosto una serie di finestre in una vita, aperte in momenti forse neanche cruciali. È un film profondamente umano, capace di esprimere tenerezza senza commiserazione, anche quando la “grande libertà” del titolo arriva e non cambia poi così tanto le cose.