Una questione di spazi
Non è possibile evadere la questione del tocco di Lubitsch, ma cerchiamo di parlarne evitando che diventi un cliché, un modo facile di raccontarne l’opera. Cos’è quel tocco? La leggerezza, il ritmo invidiabile, il passo svelto e preciso del racconto, l’umorismo aereo ma anche molto sensuale. Certo, ma non solo. Lo si coglie bene in Il ventaglio di Lady Windermere, uno dei suoi film più celebri che ha recentemente aperto Le giornate del cinema muto di Pordenone nella versione restaurata dal MOMA.
Datato 1925 e tratto dall’omonima pièce di Oscar Wilde (adattata da Julien Josephson con Maude Fulton ed Eric Locke alle didascalie), il film racconta di un gioco di equivoci e scandali che lega la Lady del titolo (May McAvoy) a sua madre (la splendida Irene Rich), una signora che dopo tanti anni vorrebbe conoscere sua figlia, rischiando però di destare scandali e rovinare famiglie.
Una commedia degli equivoci senza il lato umoristico, oppure un melodramma che alleggerisce gli elementi di pathos con l’ironia, Il ventaglio di Lady Windermere non sembra uno di quei film per cui Lubitsch è diventato famoso, dalle operette che lo hanno portato a viaggiare per gli USA fino alle commedie sofisticate di cui è maestro indiscusso (da Ninotchka a Vogliamo vivere e moltissime altre).
E forse proprio per questo sembra un film ideale a capire cosa sia in fondo quel tocco, lontani dalle zone di sicurezza con cui conosciamo il suo cinema, gli scambi di persona, gli intrecci raffinati, i magnifici dialoghi, l’incedere smaliziato. È una questione di sguardo: la costruzione del racconto e dei personaggi, e quindi della comunicazione con il pubblico, è tutta nella costruzione delle sue inquadrature, nel modo in cui fa interagire gli spazi della scena con i suoi attori, la messa in quadro diventa modernisticamente la descrizione di un mondo.
Lubitsch, assieme al suo direttore della fotografia Charles Van Enger, compone inquadrature in cui i personaggi sono sempre dentro riquadri, cornici, figure geometriche di cui cercano ripetutamente i bordi, come a voler evadere o al contrario prendersi tutto lo spazio possibile, sfruttando filmicamente anche i bordi dell’immagine che di solito lo spettatore tralascia, soprattutto in basso, usando da maestro i campi medi e lunghi; su questi bordi Lubitsch tesse la sua narrazione, li usa in senso espressivo per creare micro-gag (come con le tre signore pettegole) o per descrivere i rapporti dei personaggi, come quando Lady Windermere crede di vedere Mrs. Erlynne amoreggiare col marito da dietro una siepe o quando Lord Augustus pedina Erlynne e il mascherino riduce l’inquadratura rendendola verticale e stringendo i due personaggi. Il tocco quindi non è solo nella sensibilità del narratore, ma soprattutto nella verve inventiva del regista. Quella verve limpida e spesso geniale che portò Billy Wilder (che fu il maggiore degli allievi: basti vedere il modo in cui qui si ribaltano i benpensanti e i fuori casta) ad avere appeso nel suo ufficio un quadretto con su scritto: “Come lo farebbe Lubitsch?”.