L’arte delle immagini senza movimento
Per cominciare con una citazione abusata, se “il cinema è la verità 24 volte al secondo” a Chris Marker basta un solo fotogramma per creare verità, togliendo al cinema la sua radice verbale, il kino, il movimento. La radice della parola diventa così la radice dell’immagine stessa che in più di cinquant’anni di carriera e varie decine di film di varia natura e diversi formati, Marker ha analizzato, reinventato, ucciso e fatto risorgere.
Nato nel 1921 e morto nel 2012, Marker nel corso del tempo è assurto a vero nume tutelare di coloro che teorizzano e praticano il cinema sperimentale, ma il suo contributo è fondamentale – e rivedendone le opere appare ancora più evidente – anche per quei cineasti che si sono dedicati al documentario e alle sue espansioni più creative sotto l’ombrello ampio del “cinema del reale”.
Prendiamo per esempio Sans soleil (1983), il suo lungometraggio più celebre: è una raccolta di diari di viaggio che creano, messi insieme, un’unica dimensione sospesa tra visione e ricordo, anticipando la tendenza di tutta la non-fiction degli ultimi anni (non solo cinematografica, anche letteraria o audio) a raccontare attraverso la memoria, il filmato d’archivio e il filmino amatoriale, la testimonianza orale o visiva non mediata dall’occhio di un autore, che invece qui è presentissimo, si dissimula mentre esalta la sua potenza.
Vale anche per i suoi film relativamente più vicini allo standard con cui siamo soliti definire il documentario: Dimanche à Pekin (1956) filtra un viaggio nella città cinese, pieno di colori e amore per le tradizioni di quella nazione, attraverso il dormiveglia di una domenica assolata, all’ombra della Tour Eiffel; Lettre de Sibérie (1957) compone il suo sguardo mescolando l’animazione con l’etnografia, l’esperienza di Marker come spettatore e fruitore d’arte e la sua (finta) ingenuità di viaggiatore stupito dal mondo. Vale anche però per il lato opposto della barricata artistica, ovvero l’immagine come artefatto completamente manipolabile, senza più alcuna analogia con il reale: negli ultimi anni del suo lavoro, Marker ha nutrito – come Godard – la passione per le immagini video, digitali e computerizzate, la nuova frontiera del ricordo e della manipolazione della memoria testimoniata da Level Five (1997).
A uno sguardo contemporaneo però sembra che uno dei fulcri più vitali dei film del regista sia l’animazione, il campo del cinema in cui la costruzione e creazione della verità 24 volte al secondo è lavoro concreto, fisico e materiale: il gatto disegnato sui muri parigini di Chats perchés (2004) che conduce sornione lo sguardo di Marker dentro i cambiamenti della politica mondiale, ma soprattutto il lavoro sull’immagine fissa da cui derivano i frutti più sorprendenti e influenti della sua filmografia. Basta infatti togliere solo qualcuno dei 24 fotogrammi di cui è composto un secondo di film per trasformare la persistenza della visione in animazione a passo uno, come il regista fa magnificamente con Walerian Borowczyk in Les astronauts (1959), in cui Méliès si reinventa in un viaggio fantascientifico che è anche la prova generale del suo capolavoro, La jetée (1962), opera di fantascienza seminale e ispiratrice che utilizza fotografie e immagini fisse, montate, effettate, giustapposte. È allo stesso tempo un esperimento di racconto “anti-filmico”, un film che anima fotogrammi immobili (come lo sono i disegni del cinema animato) e un agghiacciante esempio di documentario, perché tolto il movimento al cinema non resta che l’immagine pura, il vero punto di contatto con la realtà come la esperiamo tutti i giorni. E allora forse Godard aveva ragione solo in parte: la fotografia è una verità che quando diventa cinema smette di dire il vero. Marker sembra averlo capito prima, o meglio, di molti altri.