Un elogio con due critiche
Diciamolo subito: il 78° Festival di Venezia è stata un’ottima edizione. Come l’anno scorso, la Biennale si è trovata ad eseguire un triplo salto mortale con le mani legate: non era facile organizzare una kermesse nell’epoca Covid, come dimostrato – tra tutti – dalle difficoltà dell’ultima Festa di Roma con l’entrata in vigore del coprifuoco nel mezzo della rassegna. Dal punto di vista cinematografico Venezia ha risposto bene, con il particolare merito di aver allestito il migliore concorso degli ultimi anni.
Certo, soffiava un vento a favore: i grandi film Netflix esclusi da Cannes, la possibilità di pescare in un biennio, con l’arrivo dei titoli pre-Covid (come The Last Duel di Ridley Scott, girato prima della pandemia). Così i ventuno film in competizione hanno composto una sfida solida ed eterogenea: i cinque italiani, da Martone a Sorrentino passando per i più giovani, i fratelli D’Innocenzo e Frammartino, e il film evento Freaks Out, insieme a nomi del calibro di Almodóvar, Schrader, Campion, Larraín, Brizé… Un concorso, semplicemente, “divertente”: il pubblico del Lido era concorde, negli scambi per strada intorno al festival, trovando ognuno il suo preferito, il personale Leone, il colpo di fulmine, come dovrebbe essere. Il discorso vale anche per le altre sezioni, perfino troppe, tentacolari, per seguirle tutte ci vorrebbe un altro festival. Basti segnalare a titolo di esempio lo struggente capodopera di Jon Alpert, Life of Crime 1984-2020 (fuori concorso), e la felice mescola tra realismo operaio e surrealtà del boliviano El gran movimiento di Kiro Russo (gran premio della giuria in Orizzonti).
La giuria di Bong Joon-ho ha operato le sue scelte legittime. Il palmarès, premiando il francese L’événement di Audrey Diwan, sembra muoversi in controcorrente rispetto ai Leoni degli ultimi anni, senza l’ansia di anticipare l’Oscar attraverso una vittoria cripto-hollywoodiana (La forma dell’acqua, Joker, Nomadland…). Ma è un’illusione ottica, perché il film sull’aborto è perfettamente “in tempo”, anche troppo, girato da una regista donna, con una notevole protagonista donna e su una fondamentale questione femminile. Un film a tratti buono, fortemente derivativo (Mungiu, Dardenne), che trova così distribuzione italiana, che potranno vedere e giudicare tutti, ma che non vale il massimo riconoscimento nel secondo festival cinematografico del mondo, anzi era uno dei titoli meno forti del concorso. Ignorare Qui rido io, il capolavoro di Martone, è stato clamoroso. Non ci si lasci ingannare dunque dal ritorno del cinema d’autore europeo in sede di Leone: i gesti estremi sono altrove. Cos’è un Leone coraggioso? Restando nell’attuale millennio, quello assegnato da Monicelli a Il ritorno di Andrey Zvyagintsev nel 2003: alla prova del tempo ha avuto ragione, era nato un autore. Auguriamo lo stesso ad Audrey Diwan, che intanto incassa un premio all’argomento.
Ed eccoci quindi a due critiche che, beninteso, vengono lanciate per amore, per il legame profondo che Venezia ha con il mondo della cinefilia italiana, per il suo ruolo particolarmente importante oggi nel portare le persone in sala dopo il Covid. Lo dimostrano i 315000 euro di incasso di Qui rido io nei primi quattro giorni di programmazione, con distanze, mascherine e green pass.
Il primo appunto riguarda l’organizzazione. Tralasciando il risibile sistema di prenotazione Boxol, già crocifisso sui social network, è proprio l’organizzazione complessiva che chiede una riforma. Un festival serve per “aprire” il cinema, non per chiuderlo: è impossibile incontrare gravi difficoltà per vedere i film più attesi (leggi Dune), soprattutto per il pubblico, per la gente comune. Non basta l’alibi oggettivo della triste epoca pandemica, né lo snobismo novecentesco dell’evento accessibile a pochi, concetto ammuffito al tempo delle piattaforme. Invece servono più sale, più proiezioni, una gestione migliore, insomma Venezia deve bucare la bolla.
L’altra riflessione è sull’assenza del cinema di ricerca. Come già successo negli ultimi anni, Venezia sembra accontentarsi del bel noto, dei grandi registi che fanno grandi film (chi non metterebbe in concorso Larraín?), senza eseguire un particolare lavoro di scavo alla scoperta dello strano, lo spiazzante, il disturbo, soprattutto sulle e nelle immagini. Il risultato è che i titoli in concorso si leggono spesso come “romanzi”, storie di scrittura e recitazione, moduli canonici con inizio, svolgimento e fine (anche molto belli), ma senza un lavorio peculiare dentro l’immagine. E il cinema è l’arte dell’immagine. Non si chiede la sezione Forum della Berlinale, storico spazio dello sperimentale, bensì un compromesso bilanciato tra il cinema narrativo e quello “d’arte”, si perdoni la vetusta definizione, anche ostico e difficile, di cui quest’anno Frammartino si è fatto portatore. In competizione mancano infine alcune parti del mondo, come l’Oriente e l’Africa. Era il 2006 quando Marco Müller portò in concorso il magnifico Daratt di Mahamat-Saleh Haroun, girato in Ciad, che vinse il gran premio della giuria. Ci piacerebbe tornare a vedere anche qualche stagione secca. Intanto, comunque, c’è vita a Venezia.