Il festival in pillole
AMERICA LATINA di Damiano e Fabio D’Innocenzo – EMANUELE DI NICOLA
Un dentista affermato. Una famiglia perfetta, una moglie e due figlie. Un giorno il dentista scende in cantina e trova una ragazza rapita, legata. Chi è? Chi è stato? Damiano e Fabio D’Innocenzo arrivano al Lido attesi dai fucili puntati dagli haters, chissà perché, e invece… Invece portano un film piccolo, una singola favolaccia, uno spunto esile che sarebbe da corto, con il quale confermano lo studiato maledettismo del loro cinema: studiato perché pensano meticolosamente ogni inquadratura, fanno un lavoro sulla e nella immagine come poco si vede nel cinema italiano. America Latina è un film blu come la superficie dell’acqua salmastra della piscina, ed è un film verde come il colore della tossicità, dell’avvelenamento della vita borghese. È centrato su una divisione evidente, sopra e sotto, la casa e la cantina, in cui Massimo trova il suo Babadook: è un film mentale con l’agnizione finale che costringe alla rilettura del racconto, proprio come tanti altri. Ma il punto non è il twist: il punto è lo scivolamento progressivo nella follia, la destabilizzazione della famiglia, la ri-forma della normalità, la vita perfetta che deraglia nell’allucinazione. È Haneke rivisto da Kafka (anche lui scrisse una Amerika). Ma c’entra molto anche The Father, ovvero l’assunzione della prospettiva di una mente in difficoltà, perlustrata in focalizzazione interna. Per capire come i fratelli operano sull’immagine basta guardare la madre e le figlie: figure sciocche e ultra-patinate, troppo, che proprio per la loro plasticità insinuano un dubbio, propongono un’ipotesi. E quei punti interrogativi scritti da Elio Germano insinuano, letteralmente, delle domande. Cinema ambizioso? Sì, e allora? Banale? No, perché la forma narrativa negativa serve: al contrario dei troppi film della buonanotte i fratelli fanno cinema oscuro, disturbante, spiazzante. Appunto: maledetto. Non per posa, ma per stile, per il loro sguardo strabico.
ARIAFERMA di Leonardo Di Costanzo – MARIA ELEONORA C. MOLLARD
Fine antropologo del cinema, Leonardo Di Costanzo con Ariaferma ci regala una pièce teatrale che prende il concetto di panopticon e, in barba a Jeremy Bentham, ne ridà un nuovo senso: non c’è solo un sorvegliante, ma tutti sono sorveglianti e sorvegliati in una struttura che eleva sé stessa all’infinito e mescola le carte tra guardie e ladri. Un vecchio carcere sta per chiudere, ma la burocrazia come la vita si mette in mezzo costringendo una manciata di guardie a controllare dodici detenuti in attesa del trasferimento definitivo. Il regista de L’intervallo prende due giganti del nostro cinema e gioca di sottrazione, alterando i piani tra realtà e finzione: Toni Servillo è il granitico quanto compassionevole ispettore Gargiulo e Silvio Orlando un capomafia pieno di flemma, Carmine Lagioia. Poteva essere una scelta fallimentare ma togliere loro le pastoie dai precedenti ruoli ha permesso ai due protagonisti di creare una comunione spirituale. Comunione che si estenderà al piccolo carcere improvvisato, tra piccole e grandi tragedie umane, fino all’ultima cena, dove non solo ogni differenza verrà annullata, uscendo dalle maglie imposte dalla società, ma ognuno sarà obbligato a controllare sé stesso, in un esercizio impossibile: esercitare un potere di autoanalisi e riconoscere finalmente la propria natura, un oscuro scrutare.
ATLANTIDE di Yuri Ancarani – MARIA ELEONORA C. MOLLARD
Sono i “giovani titani” quelli descritti da Yuri Ancarani in Atlantide, un documentario che incontra la videoarte che incontra l’eredità dei videoclip. In un progetto di quasi quattro anni, il video artist segue la gioventù veneziana e di chi vive nelle isole limitrofe, da Sant’Erasmo a Mestre. Se l’adolescenza è di per sé un luogo estraneo, ostile e lontano da raggiungere, lo è ancora di più se vivi sull’acqua e i subwoofer non andranno sulla prima macchina ma sul primo barchino, piccolo motoscafo, da personalizzare (mettendo il nome della propria ragazza), modificare (truccando il motore e rendendo più veloce il mezzo, per fini legali o meno, poco importa), usare come tratto distintivo in una realtà giovanile più omologata di ciò che sembra. Con una sceneggiatura scarnificata fino all’osso, interpretato da non professionisti, Atlantide è un film (?) che non sfigurerebbe in un museo, al cinema o nel piccolissimo schermo dello smartphone. Visivamente incredibile, con un’estetica tra la vaporwave e la nostalgia del classico, il tutto amplificato dalle musiche di Sick Luke e della Dark Polo Gang (prodotta da Luke stesso). Non è difficile seguire la parabola del protagonista Daniele (Daniele Barison) fino all’inevitabile e tragico epilogo. Daniele che vuole battere il record di velocità degli altri ragazzi del gruppo, rimanendo un outsider tra gli outsider, con un sorriso tanto ingenuo perché abituato alla sconfitta di una gara e di una vita intera. Forse la sconfitta di una intera generazione che preferisce astenersi da un gioco marcio, il tutto in uno scenario che già di per sé è tragico, indifferente, bellissimo e muto come Venezia.
UN AUTRE MONDE di Stéphane Brizé – EMANUELE DI NICOLA
Nessuno oggi al cinema sta facendo un’operazione sul lavoro come Stéphane Brizé. Dopo La legge del mercato e In guerra, il regista mostra il negativo della fotografia. Un autre monde racconta la storia di un dirigente, interpretato sempre da Vincent Lindon, che fa uno scavalcamento di campo, da operaio a manager (un altro mondo, appunto). È chiamato a tagliare 58 posti di lavoro nella sua azienda. D’altronde è una multinazionale, un gruppo senza testa, dove ogni capo ne ha un altro invisibile («Il mio capo è Wall Street», dice il presidente). Si licenzia per i mercati e gli azionisti, naturalmente, non perché c’è la crisi, per sgrassare la bestia, citando Reagan. Philippe è un dirigente di oggi che deve eseguire, non può intervenire, non può riflettere. Si ripete spesso che così ha deciso la proprietà e dunque è ineluttabile, la scomparsa del pensiero aziendale a favore della meccanica dell’esecuzione è una chiave del film. L’altra è la vita personale del protagonista che va a rotoli: si sfascia il rapporto con la moglie, sull’orlo del divorzio, il figlio accusa problemi psichiatrici. Lui si annoda la cravatta come fosse un nodo scorsoio. «Anche un membro dell’élite può provare dolore», spiega Brizé, e lo dimostra col suo film di colletti bianchi composto di riunioni, retorica industriale, paroloni usati per nascondere i tagli chiamandoli con altri nomi. Il mondo del lavoro qui ha già perso, il sistema è inevitabile e viene dato per scontato: quando Philippe prepara una proposta alternativa, tagliare i bonus dei manager per salvare gli operai, si scontra con la spietata risposta del capo immateriale. Siamo dalle parti del “manager movie” del nuovo millennio, quello che in Italia fu tematizzato da Volevo solo dormirle addosso di Eugenio Cappuccio, film che somiglia a questo soprattutto nel finale. Ma Un autre monde è diverso, in quanto racconto piantato nel contemporaneo, che lo critica, lo mette in dubbio, lascia questioni aperte. Come per In guerra i rapporti di lavoro si sono smaterializzati, sono diventati digitali, non c’è più il corpo del capo da contestare ma solo un’immagine digitale, ovvero ai lavoratori viene sottratto il nemico e la possibilità di conflitto, e questo è un motivo del loro scacco. Al contrario del clamoroso finale del titolo precedente, che riscriveva la lotta di classe nell’era mediatica, qui c’è un film ripetitivo, fatto di riunioni, giacche e cravatte, Lindon che legge e rilegge dati e documenti. Così deve essere: rende alla perfezione la ripetizione sfiancante di riunioni sempre uguali, che servono a licenziare i più deboli, a riaffermare il dominio dei ricchi sui poveri. Brizé respinge la spettacolarizzazione del lavoro, ne smonta il dramma. Tutto è mesto, grigio. È il nostro mondo.
IL BUCO di Michelangelo Frammartino – EMANUELE DI NICOLA
Negli anni Sessanta, in Calabria, un gruppo di speleologi scopre una delle grotte più profonde del mondo: l’Abisso del Bifurto. Michelangelo Frammartino rievoca quell’impresa in un re-enactment: torna nella zona del suo primo film Il dono, girato a Caulonia, toccando stavolta una Villapiana ricostruita. I musicarelli degli anni Sessanta e la costruzione del grattacielo Pirelli danno le coordinate: nel paesaggio calabro, di sopra un vecchio pastore richiama il gregge e si appresta alla morte, di sotto gli uomini si calano nel buco. I due piani sono strettamente collegati: la natura scorre, il vento fa il suo giro, e mentre sopra si muore, sotto si tenta l’impresa. È questo il punto: girato senza primi piani (tranne quelli del pastore), in campi soprattutto lunghi e lunghissimi, il film si lancia letteralmente nell’antro della terra. Da sempre il regista interroga la natura con pazienza e ottiene in cambio il dono dell’immagine. La forza visiva è straordinaria: Frammartino dipinge il buio, scava nell’oscurità e la illumina attraverso i fuochi, perché in questo film senza protagonisti il vero protagonista è la grotta. Ogni anfratto viene perlustrato dalla macchina da presa, ora morbidamente, ora ruvidamente: nella discesa all’inferno la luce fa corpo a corpo con le tenebre, all’ombra solo tenue dell’uomo. Poi, all’improvviso, il buco finisce: c’è una parete di roccia oltre la quale non si può andare. L’ambizione umana si ferma contro un muro, ma ormai l’impresa è compiuta. Nel concorso veneziano, nell’abitudine dei film narrativi, Frammartino è uno dei pochi che propone uno sguardo, un’immagine, un discorso “solo” di cinema. Anche ostico, ma radicalmente anti-didascalico: un invito a vedere con nuovi occhi. Cinema radicale, volendo esagerare: si aggira da qualche parte intorno a Lav Diaz.
È STATA LA MANO DI DIO di Paolo Sorrentino – MARIA ELEONORA C. MOLLARD
Il tempo è la scuola dove impariamo, il tempo è il fuoco dove bruciamo (Delmore Schwartz)
Sorrentino è tornato a casa, “a fare la nanna”, e con È stata la mano di Dio ci porta nella sua personale yellow brick road, dove il suo alter ego Fabietto è testimone della fantastica quanto dolente stagione ’86/’87: se da una parte Maradona rende campione del mondo l’Argentina e porta lo scudetto a Napoli, dall’altra la perdita di entrambi i genitori diventa il battesimo del protagonista. C’è tutto il Sorrentino che abbiamo imparato ad amare/odiare, le sue fissazioni, la tensione erotica costante verso il sesso femminile, paesaggi accarezzati dalla macchina da presa e una sfilata di personaggi incredibili. Ci racconta di lui, ma anche di noi, di ciò che ci ha definiti, formati, segnati, distrutti e ricomposti in quella parentesi dolorosa e spensierata dell’adolescenza, il tutto attraverso la Storia che corre parallela a tableaux vivants di stralci di una quotidianità in famiglia, sicuramente imperfetta, ma indispensabile. È stata la mano di Dio è l’abbraccio dopo il risveglio, ma anche il silenzio dell’età adulta, lontano dalle risate dell’infanzia.
FREAKS OUT di Gabriele Mainetti – VITO PIAZZA
Con Freaks Out Gabriele Mainetti apre un nuovo sentiero per il cinema italiano, dove il passato e il presente si uniscono al soprannaturale e si intrecciano con il citazionismo postmoderno. In questo pastiche, la regola estetica è soltanto una: godere dello spettacolo. Roma, nel 1943, è ancora occupata dai nazisti. In periferia si esibisce il circo Mezzapiotta, dove sotto la tutela di Israel si guadagnano da vivere Matilde, Fulvio, Cencio e Mario. Quando Israel viene rapito dai tedeschi, però, i quattro freaks sono costretti a tentare un rischioso salvataggio che li porta a unirsi alla Resistenza. (Ri)partendo da una sceneggiatura del fido Guaglianone, Mainetti mette subito le cose in chiaro muovendo dal manicheismo emotivo e da uno svolgimento giocoso, virtuale. In fondo, si tratta quasi di connotati “da console”, quelli che oppongono buoni contro cattivi, e cioè Resistenza contro nazisti: schierarsi è lapalissiano. Del resto è anche impossibile resistere alla libidine dell’avida visione, specie al cospetto di scene girate magistralmente (meravigliosa l’apertura del film, ad esempio) e dinnanzi al senso di rivalsa del diverso che cerca, trova e difende il proprio senso di integrazione in una famiglia, sebbene sui generis. Vedendo annichilite le proprie difese emotive e razionali, e sopraffatti i suoi sensi e la sua brama di giustizia/vendetta, lo spettatore può solo sgranare gli occhi di fronte a un film che di certo, in Italia, non ha mai avuto eguali. Freaks Out si genuflette di continuo alla poetica tarantiniana, tanto nei dettagli quanto nello spirito complessivo, ma non manca di omaggiare l’italico passato cinematografico, risalendo nientemeno che a Roma città aperta. Nulla è fuori posto e tutto è costruito con sapienza tecnica e una certa furbizia. La lunga impresa produttiva di Mainetti non è solo irresistibile di fatto, ma è concepita per non poter fallire nel suo (già vinto) tentativo di coinvolgere cinefili di varia provenienza e amanti del genere di altrettanto variegata estrazione. Il bombardamento sensoriale, certo, non cambierà i gusti dei primi, e probabilmente non spingerà i secondi a esumare le tante ascendenze autoriali. Ma sta proprio in questa specie di via media la grandezza del film, la cui imponenza visiva è pari solo alla sua ambizione commerciale. Niente male, affatto. Soprattutto per un Paese che forse, con le sue nuove generazioni di registi, sembra finalmente capace di guardare molto oltre il realismo. E che sembra potersi concedere il lusso di sognare palcoscenici che poco o nulla hanno da invidiare a Hollywood. Forse è solo un sogno. O forse è una mezza realtà. Dopotutto, è un film di Mainetti, uno per il quale queste differenze – almeno sullo schermo – sembrano non avere poi molta importanza.
LAST NIGHT IN SOHO di Edgar Wright – VITO PIAZZA
Con Last Night in Soho Edgar Wright ci trascina in una Londra labirintica e mefistofelicamente tentatrice. In questa città infernale dai colori sgargianti e lisergici, che risuona delle musiche e delle atmosfere della Swinging London, si trasferisce Eloise (McKenzie), che dai sobborghi vi giunge per inseguire i suoi sogni. Pur incanalandosi in una prospettiva teen, il film di Wright ammalia il pubblico d’ogni età con una messinscena accattivante ma misteriosa, rigorosa ma eccentrica. In un continuo gioco di rimandi estetici, il doppio balena continuamente come archetipo esplicativo del sogno/ossessione: riuscirà l’ingenua Eloise a cavarsela nell’inferno urbano nel quale si è voluta calare contro ogni raccomandazione? Tutto, nella prima parte del film, contribuisce a creare un’atmosfera frenetica e spumeggiante, e il gran ritmo drammaturgico sviluppa un climax sapientemente sfruttato per fagocitare lo spettatore in un turbinio quasi irresistibile. Con il procedere del racconto, tuttavia, il ritratto – ancorché riuscito – dell’angoscia giovanile di fronte al dramma della crescita e delle pressioni sociali si sfilaccia. Il castello crolla, la tessitura si sfibra in una virata semi-horror, e il disincanto si tramuta in amaro disappunto: lo stesso di un bambino che, una volta scoperto il trucco del mago, smette di interessarsi alla magia. Un vero peccato, questo cedimento strutturale, specie considerate le premesse più che accettabili in fatto di regia, non di rado nobilitata da preziosismi (la scena del ballo fra i tre attori è formidabile) e lampi di assoluto rigore visivo.
MADRES PARALELAS di Pedro Almodóvar – EMANUELE DI NICOLA
Due donne senza uomini partoriscono lo stesso giorno, l’una matura (Penélope Cruz) e l’altra più giovane (Milena Smit, rivelazione). Così si innesca Madres paralelas, racconto in cui Pedro Almodóvar sembra frequentare l’archetipo dello scambio nella culla. La prima parte infatti è un fiammeggiante melò tipico dell’autore, scolpito nei colori di Douglas Sirk e sfumato nelle morbide dissolvenze in nero post-hitchcockiane. All’insegna dell’immagine, con la protagonista fotografa che esegue scatti (anche) su una Veruschka transgender. Ma non è come sembra: il presente viene manovrato per arrivare al passato, alle squadracce dei fascisti, ai desaparecidos ancora oggi sepolti nelle fosse comuni. È proprio una di queste che il personaggio di Penélope Cruz chiede di riesumare all’amante archeologo: la donna però ha un peccato, vuole fare luce sul passato ma architetta una bugia nel presente. L’uno è collegato all’altro in un effetto domino: quando cade il velo sull’oggi, non a caso, la verità si allunga anche su ieri. Letteralmente, affiora. Ma ancora una volta non è come sembra: la storia disegna un’ipotesi di amore lesbico e l’utopia eversiva di una società composta da donne, con uomini fuori campo, come segnala la t-shirt femminista di Penélope. E l’elemento chiave del film è il tampone per il test del DNA: usato su neonati e anziani, per ricostruire il presente e il passato, perché il sangue non mente. Ma, per l’ultima volta, non è come sembra. Madres paralelas è il film più politico di Almodóvar, quello che affronta la guerra civile, scava nel rimosso della Spagna e costringe alla memoria, ma non è un film politico tradizionale. Perché Pedro lo gira nell’unico modo in cui lui può essere politico: attraverso la politica dei sentimenti.
OLD HENRY di Potsy Ponciroli – LORENZO MELONI
Da anni ormai il vecchio Henry coltiva la terra brulla e sterile di Woods County, dove vive solo con suo figlio cercando di tenerlo lontano dalle pistole. Un giorno un uomo gravemente ferito capita sulla proprietà con una borsa piena di banconote. Si professa sceriffo, ma tre rider con la stella sul petto gli danno la caccia. A chi credere? E che fare del denaro? A dispetto delle apparenze, il western tutto al maschile di Potsy Ponciroli ha più di un punto di contatto con la rilettura queer di Jane Campion nel confronto coi modelli mascolini intrisi di violenza della tradizione, qui filtrato attraverso una disperata anti-pedagogia che rimanda direttamente a Gli spietati di Clint Eastwood. È una strana bestia questo Old Henry: per due terzi – eccezionali -montando come nel capolavoro eastwoodiano la tensione verso l’esplodere di un passato incancellabile, apre un canale di comunicazione col western esistenziale e disilluso dei ’50 (Daves ma soprattutto Boetticher). Nel grigiore dei suoi paesaggi, lontanissimo tanto dall’ariosità del Classico quanto da ogni spettacolarizzazione parossistica, si agitano dilemmi morali degni di un noir alla Tourneur e ben al di là di una Leggenda in cui nessuno sembra più credere. Poi d’improvviso questa erompe, in una rilettura ancora una volta originalissima, ma che per irruenza rischia di compromettere l’atmosfera attentamente calibrata su semitoni, sottintesi, pennellate evanescenti. Fascino e sregolatezza.
THE POWER OF THE DOG di Jane Campion – VITO PIAZZA
The Power of the Dog è l’adattamento dell’omonimo romanzo di Thomas Savage del 1967. La storia è ambientata nelle praterie del Montana nel 1925. Protagonisti sono i fratelli Burbank, gestori del ranch familiare: George (Plemons) è mite e ben educato; Phil (Cumberbatch) è burbero e scorbutico, poco incline alla socialità. Quando il primo sposa una vedova (Dunst), Phil ne comincia a vessare il figlio, in quella che pare una guerra psicologica e intrafamiliare, silente ma non meno crudele. Jane Campion prende le mosse dal microcosmo familiare per scavarne in profondità reticenze, segreti e rancori reciproci. In consuete atmosfere che oscillano tra il thriller e il dramma, Campion traccia il ritratto di una natura ferina e (culturalmente) intesa come la dimora della muscolare mascolinità, svelando invece, alla lunga, quanta forza si possa celare anche dietro identità tutt’altro che definite o stereotipate. Una natura da domare o da schernire, dunque, quella incarnata dalle fattezze androgine di Kodi Smit-McPhee. Lui, il ragazzino che sembra destinato a infrangersi sulle asperità di un mondo duro come il granito, è la chiave di volta anche per altre riflessioni: la consueta sessualità e l’amore filiale, su tutti. Al di là dei topoi di riferimento di Campion, ci spiace notarlo, ma la portata di The Power of the Dog rivela qualche allentamento strutturale, specie per quanto concerne lo sviluppo e l’approfondimento psicologico di alcuni personaggi. Una dote, questa, che, del resto, la regista di opere come Un angelo alla mia tavola o Lezioni di piano ha dimostrato di sfruttare con innata naturalezza. A poco serve la nerboruta – ma mai sovraccarica – prova di Cumberbatch, o qualche magistrale movimento di macchina. L’impressione complessiva rimane quella di un’occasione mancata.
QUI RIDO IO di Mario Martone – EMANUELE DI NICOLA
Mario Martone inscena la parabola di Eduardo Scarpetta all’inizio del Novecento: il più grande commediografo e attore napoletano, ricco e famoso, ma anche egotico e spietato, in primis con la sua famiglia. Anzi la sua tribù, fatta di figli e figliastri, preferenze palesi, bambini legittimi e no, rapporti quasi incestuosi come quello con la nipote acquisita, da cui nacque Eduardo De Filippo. Martone gira il prequel del suo film precedente Il sindaco del rione Sanità: la nascita della commedia attraverso Scarpetta, l’uomo che voleva superare Pulcinella. Tutto comincia da qui, la commedia moderna, la famiglia sformata, lo specchio tra arte e vita. È un Noi credevamo del comico. Il racconto passeggia nell’epoca toccando D’Annunzio e Croce, con l’uno che fece causa a Scarpetta e l’altro che volle difenderlo. Il regista dipinge gradualmente il ritratto di un tiranno geniale e convoca le massime questioni del suo e nostro tempo: la differenza tra l’arte e la commedia (leggi anche: tra cinema d’autore e commerciale), se davvero c’è una differenza («Siamo tutti artisti», dice Scarpetta), lo spazio tra le aspettative e la realtà, col peso del dominus che fa ricadere con violenza la sua volontà sui parenti da comandare (struggente la figura del piccolo Peppino, che sempre odierà il padre). Il palco si riflette continuamente nella vita, ma è uno specchio scuro. Scarpetta dirige, eppure i rivoli della sua famiglia gli sfuggono. Alcuni prendono altre strade, uno lo supererà con un cognome diverso, trovando la gloria che è tutta nelle foto finali. Il protagonista entra in un cono d’ombra, soffre l’arrivo del nuovo e del cinematografo, si avvia alla senilità che non sa affrontare: «Ridete di tutto, ma non sapete ridere del tempo che scorre» (Croce). Martone manovra l’esperienza teatrale, gira magnificamente e, servito dal miglior Servillo di sempre, regala sequenze sublimi, una tra tutte lo spettacolo dannunziano di cui il drammaturgo nella mente già immagina la fallimentare parodia. Ma chi era Scarpetta? Qui rido io è un film senza risposte ed è questa la sua grandezza. Lanciare dubbi, non scioglierli, mostrare Scarpetta che fa il buffone in tribunale per essere assolto e insieme riconoscergli la storica sentenza che permette la parodia, quindi la libertà. L’autore insomma mette in scena la nota, ambigua risposta che Eduardo De Filippo fornì a proposito di chi era suo padre: «Era un grande attore». Ed è cinema puro, quello di Martone, cinema che pone questioni aperte e lo fa dentro le immagini. Un film che resterà, importante per il regista, per il cinema e la cultura italiana. Un capolavoro.
REFLECTION di Valentyn Vasyanovych – VITO PIAZZA
Dopo il trionfo nel 2019 nella sezione Orizzonti con Atlantis, Valentyn Vasyanovych torna nuovamente sullo scenario della Guerra del Donbass con Reflection. Al centro della scena c’è il dramma umano del chirurgo ucraino Serhiy, il quale, dopo essere sfuggito a un campo di prigionia russo dove ha assistito a spaventose violenze, tenta un complicato riavvicinamento con l’ex moglie e la loro figlia. Meditabonda e introspettiva, simbolica e visivamente fin troppo sofisticata, quest’ultima fatica di Vasyanovych non fa nulla per nascondersi, né per demistificarsi o per piacere. La granitica complessità delle scene (lunghe, lunghissime, probabilmente indulgenti, a volte) sembra suggerire l’idea di una compiaciuta affettazione, di un’indulgenza nella “maniera”. Vero fino a un certo punto. Strutturalmente siamo dalle parti di Roy Andersson, ma senza alcuna concessione al (sor)riso né alla surrealtà. Il dramma raccontato da Vasyanovych è intrinsecamente umano, incarnato, tangibile e sensibile fino allo sfinimento. La sofferenza dei corpi martoriati lascia tracce che l’uomo non può rimuovere con un semplice colpo di spugna o con una religione consolatoria. Occorre solo tempo, appunto, molto tempo. La famiglia – allargata o biologica che sia, quindi simbolica – è l’ultimo rifugio dentro il quale barricarsi, un caldo riparo dal freddo, dai lupi, appena al di là del crinale dorato che culla la calma rispettabilità borghese. Reflection, una delle opere più coraggiose ammirate al Lido quest’anno, non è un film per tutti i pubblici, né per tutti gli orari, ma val la pena di soffrire un po’ per aprirsi a ogni suo fendente visivo. Da assaporare, ça va sans dire, molto lentamente.
SPENCER di Pablo Larraín – GIANLORENZO FRANZÌ
Pablo Larraín è incredibilmente capace di parlare del pubblico sovrascrivendolo sul privato: raccontare l’attualità più urgente senza dimenticare di essere delicatamente, intimamente universale. Con Spencer, sembra unire la sua spinta verso l’attualità più stringente (che ha dato vita alla sua trilogia capolavoro, Post Mortem – Tony Manero – No) alla voglia d’indagare le icone moderne (come con Jackie e Neruda), partendo allora dalla storia e distorcendo poi la realtà in racconto, virando improvvisamente sull’evento immaginario (o immaginato). È così che l’ultimo weekend natalizio di Carlo e Diana ancora insieme diventa l’arco temporale per prendere il corpo di Diana e trasportarlo in un altrove fantasmatico, dove far fluire la sua intimità e farne un ritratto più vero dal punto di vista emotivo piuttosto che da quello storico. Spencer però parte male e finisce peggio: l’inerte inespressività della protagonista Kristen Stewart (qui meglio che altrove, va detto) fa il paio con un racconto che usa e abusa stancamente dei più che noti cliché su Lady Diana: la bulimia, l’infelicità, l’amore per i figli e la gelida indifferenza della famiglia reale. Tutto fa sì che neanche in un passaggio si possa avvertire il fremito di un autore capace di ben altre altezze emotive, come se quasi facesse fatica a tenere testa alla sua intuizione drammaturgica – reinventare i giorni di Diana Spencer – perdendosi quindi in un film lezioso e levigatissimo, ma che innegabilmente si depotenzia sempre più man mano che arriva alla (grottesca, quasi involontariamente comica per come è fuori fuoco e fuori storia) ultima scena.
SUNDOWN di Michel Franco – ANDREA MOSCHIONI
Una famiglia inglese spudoratamente benestante, in vacanza in un resort di lusso ad Acapulco, paesaggi paradisiaci, giornate al sole in compagnia di un buon drink. Poi, ad un tratto, la quiete viene rovinata da una notizia sconvolgente e tutto sembra crollare. Inizia così il nuovo film di Michel Franco, per poi perdersi e risultare tedioso e mediocre. Anche questa volta si racconta un Messico in cui la violenza e la ricerca spasmodica di soldi “facili” sono all’ordine del giorno ma, a dispetto del precedente Nuevo orden, la vicenda si incarta su sé stessa e non aggiunge niente di nuovo alla poetica del suo autore. Una critica sociale che sa di “vecchio” e restituisce personaggi superficiali, vittime di un egoismo miope, sia che si stia parlando di borghesia ricca che di sottoproletariato. Franco sembra quasi un moralizzatore che non ammette sfumature: o sei apatico e capriccioso (il personaggio interpretato da Tim Roth) o sei un malavitoso approfittatore (quasi tutti gli abitanti di Acapulco). Non esiste redenzione e, soprattutto, non esiste una società che si ribella a tutto ciò. Lo sguardo, messinscena compresa, è limitato e quasi di comodo, finalizzato solo a raccontare l’orrore che da un momento all’altro può arrivare a destabilizzare la routine. Gli incubi e i demoni che vivono e divorano da dentro tutti i personaggi vengono solo abbozzati e ci si chiede cosa voglia veramente raccontare il film: la ribellione ad uno status, la voglia di evadere, o di concedersi “il paradiso fino all’ultimo istante”, la violenza crudele di un territorio, la viltà del dio denaro? Lo spettatore paziente, malgrado la breve durata della pellicola, non lo capisce.