Il cinema che entra nella mente
Anthony è un uomo a tratti brillante ma che peggiora con l’avanzare dell’età, soprattutto a causa dell’Alzheimer. Sua figlia Anne, che lo accudisce, ha bisogno dell’aiuto costante di un’infermiera per non essere costretta a farlo ricoverare in una casa di riposo. Peccato che il protagonista tenda a respingere questa idea, ritenendo di essere autonomo e di non aver necessità di alcun sostegno. La situazione, con il passare del tempo, diventa sempre più insostenibile.
Tratto dall’omonima opera teatrale dello stesso Florian Zeller (qui al suo esordio dietro la macchina da presa), The Father – Nulla è come sembra punta a immergere lo spettatore nella mente del protagonista, nella sua percezione confusa del mondo, facendo così coincidere lo sguardo del pubblico con quello del personaggio principale.
Un’idea, quella appena descritta, che non viene realizzata attraverso soggettive, sovrimpressioni o altre soluzioni che dichiarino lo sguardo alterato nel quale siamo immersi, ma, al contrario, tramite uno stile visivo assolutamente sobrio e realista, tanto nella regia quanto nella scenografia e nella fotografia. Sulla stessa linea d’onda vi è anche la narrazione, che rende esplicita la struttura del film in modo molto graduale. All’inizio di diverse scene si pensa di assistere al mondo reale, fino a quando alcuni dialoghi non smentiscono ciò che si è appena visto e ascoltato. Inoltre, alcuni momenti mantengono una certa ambiguità di fondo non rendendo mai davvero palese il confine tra la realtà e l’universo creato dalla mente del protagonista. Tutto ciò crea un effetto straniante ma estremamente efficace, in quanto lo spettatore è costantemente costretto a mettere in discussione ciò che ha appena visto, provando così la stessa confusione e lo stesso smarrimento di Anthony.
Nel portare avanti tale operazione, Florian Zeller ha dichiarato di essersi ispirato a Rosemary’s Baby per le atmosfere e a Mulholland Drive per la struttura narrativa: due riferimenti apparentemente molto lontani dal film in questione, ma che in realtà risultano piuttosto coerenti con lo stile complessivo dell’opera. Della pellicola di Polanski vi è l’inquietudine creata in un’ambientazione costituita soltanto da interni (e alla quale contribuiscono anche le musiche di Ludovico Einaudi), mentre del film di Lynch vi è una narrazione che unisce costantemente delle realtà tra di loro contraddittorie e alternative.
La riuscita del film è dovuta però anche alle intense interpretazioni dei protagonisti, in modo particolare quelle di Anthony Hopkins (vincitore dell’Oscar per il ruolo del padre) e di Olivia Colman nella parte della figlia Anne. In tale direzione, va aggiunto che l’opera in questione – nonostante la sua ossatura portante risieda nella soggettività del protagonista – lascia un certo spazio anche alla figlia, mostrandone la sofferenza e la stanchezza, dovute sia alla preoccupazione per la salute del genitore sia a una serie di sacrifici che non è più in grado di reggere da sola. Su quest’ultimo punto l’autore non fa sconti, in quanto mostra in modo chiaro – e talvolta persino brutale – il senso di oppressione provato da Anne (si pensi alla scena in cui immagina di soffocare il padre).
E in tale direzione, assumono un significato ancora più rilevante le ambientazioni negli interni, che qui hanno anche la funzione di trasmettere il senso di claustrofobia provato dalla donna, costretta a far fronte a una situazione dalla quale non sa come uscire. Tutti elementi che rendono The Father un film non solo interessante sul piano stilistico e narrativo, ma sorprendente per come riesce a immergere lo spettatore nello stato mentale di un uomo e, contemporaneamente, a fargli allargare lo sguardo su un punto di vista diverso e più ampio, quello delle persone che subiscono indirettamente i disagi provocati dalla malattia di un proprio caro.