Le prigioni della memoria
Il chirurgo di origine ebraica Simone accorre sul luogo di un terribile incidente. Nell’auto speronata da un pirata della strada giace esangue Antonio Minervini, sul corpo del quale campeggiano dei tatuaggi nazisti: quanto basta, a Simone, per abbandonarlo al suo inevitabile destino. Ma i sensi di colpa lo perseguitano, così assume come colf Marica, primogenita di Antonio. Incurante dell’indole violenta e razzista del fratello minore Marcello, neonazista come il padre, Marica inizia a penetrare nei più reconditi meandri della vita di Simone, dandogli la possibilità di rimettersi in pari col destino.
L’esordio cinematografico di Mauro Mancini dichiara il proprio scopo in un titolo che suona come monito: Non odiare, un memento che si leva dal passato e che si spera possa attecchire e germogliare sui giovani, spesso vittime di un presente privo di memoria e soprattutto di guide.
La storia è ambientata in una città non immediatamente riconoscibile, ma non per questo meno precisa e familiare – quindi, potenzialmente, universale – per le dinamiche sociali che incuba: immigrati alle prese con lavori umili; neonazisti come Marcello che odiano e vessano i diversi, e che trascorrono le serate noiose esibendosi nei truci bangla tour; professionisti come Simone che si dividono tra casa e lavoro. È il fato a intrecciare in maniera inestricabile i fili di queste vite.
Mancini si concentra sui ferini rigurgiti di una terribile piaga storica, ma il suo tono non è quello didattico da trattato accademico. Tutti i protagonisti sono anzitutto esseri umani, attori di un dramma intimo e asciutto, silenzioso come le loro esistenze, troppo a lungo prede di una memoria incancrenita e ottundente. La famiglia è insieme matrice e cartina di tornasole di una società nella quale l’odio trova terreno fertile troppo facilmente, ma senza reali, concrete motivazioni. Simone e Marcello, sebbene sui lati opposti della barricata pseudo-razziale – e, pertanto, esclusivamente teorica – sono entrambi ostaggi di una paternità tutt’altro che idealizzata, bensì subita in quanto dannosa. L’uno non ha più coltivato alcun rapporto col padre ormai morto, e trascina dietro di sé un’eredità fisica ed emotiva sempre più gravosa; l’altro, dal canto suo, ha assorbito dalla figura paterna fino all’ultimo di tutti i più perniciosi fenotipi e stereotipi. Tra questi due bastioni infestati dalle ruggini della memoria fa la spola Marica, unico spiraglio di luce che con umanità e pragmatica delicatezza sembra la sola capace di scardinare fortezze emotive e muovere gli immobili.
Le tematiche, il cupo realismo della messinscena e della fotografia, nonché la narrazione inframmezzata da radi dialoghi, riecheggiano l’impostazione estetica di This Is England (Shane Meadows, 2006). Mancini lavora allo stesso modo nell’ottica della sottrazione, lasciando al meditabondo Gassmann, a uno Zunic solo apparentemente granitico e alla coraggiosa e misuratissima Serraiocco il compito di (sop)portare e maturare i roboanti silenzi dei rispettivi personaggi. In una storia dal retrogusto amaro che non edulcora nulla, le identità appaiono infine e inevitabilmente come costrutti, forieri di grossolane e tossiche reificazioni capaci di annientare ogni barlume di arbitrio e umanità. E se è giusto non dimenticare, non lo è forse altrettanto non trincerarsi e poi abbrutirsi nelle prigioni della memoria? Alle generazioni più giovani, ideali destinatarie dell’opera, l’ardua sentenza. Nel frattempo, la speranza – minima – è quella che esse accettino quantomeno di non odiare. E quindi, essere davvero liberi.