Ridi, pagliaccio!
Lo scienziato Paul Beaumont (Lon Chaney) può finalmente dimostrare un’importante invenzione ma il suo amico, il Barone Regnard, trama di attribuirsi lo straordinario risultato. Nessuno crede a Beaumont che rivendica la paternità della scoperta e, per aggiungere la beffa al danno, viene schiaffeggiato dall’amico e deriso dall’uditorio accademico. Se la sua vita è un gioco crudele, lo sfortunato ricercatore sceglie di accettarne l’essenza consacrandosi al divertimento altrui. Decide di lavorare in un circo che lo accoglie a braccia aperte: il volto incipriato e un sorriso esasperato sono gli strumenti della sua nuova arte.
L’uomo che prende gli schiaffi è il secondo tra i film americani di Victor Sjöström, il grandissimo attore e regista svedese del Carretto fantasma che nei titoli compare anglicizzato in Victor Seastrom.
È anche il secondo adattamento cinematografico dell’opera teatrale di Leonid Andreyev – il primo, russo, risale al 1916 – e arriva quattro anni dopo l’omonimo musical di Broadway. Si tratta, quindi, di una storia russa filtrata dall’occhio personale di un autore scandinavo, ennesimo successo del melting pot statunitense, della massiccia presenza e influenza straniera che ha posto le fondamenta del grande cinema di Hollywood.
Fu il primo film interamente prodotto dalla neonata Metro-Goldwyn-Mayer ma non il primo a essere distribuito nelle sale. Grande successo commerciale nel periodo natalizio, la critica lodò l’interpretazione tragicomica di Lon Chaney, “l’uomo dalle mille facce” già celebre per il suo lavoro in L’uomo del miracolo e Il gobbo di Notre Dame. La messinscena grottesca di Paul Beaumont ripete fedelmente le circostanze del suo fallimento davanti ai membri dell’Accademia: egli tenta inutilmente di intavolare un discorso scientifico ma è ripetutamente interrotto dagli schiaffi degli altri clown e deriso dal pubblico, quello pagante e quello dei figuranti disposti a uditorio. Il cuore di pezza è quindi strappato dalla sua veste e sepolto nel terreno; segue il corteo funebre dei clown piangenti che, insieme al cadavere ammiccante di Paul, seppellisce anche quel poco che resta dei buoni sentimenti di un pubblico così straordinariamente crudele come solo il cinema muto ha saputo rappresentare. La messinscena si ripete finché l’ampio ghigno non diventa una parte essenziale di Paul; la sua disperata rappresentazione gli vale una celebrità tanto amara quanto inaspettata.
Il suo sorriso non è l’imposizione di uno sfregio, come accadrà al Gwynplaine di L’uomo che ride del 1928, ma una risata su se stessi e sul mondo, la disperata ambizione della vittima a godersi il divertimento del proprio stesso linciaggio. Qualcosa ancor si muove sotto la maschera autoimposta, un debole sentimento di rivalsa o forse la pretesa di poter essere ancora preso sul serio; Paul lo comprende quando vede tra il pubblico il traditore, Regnard, che ride all’unisono con gli altri. Il Barone desidera sposare Consuelo, la giovane cavallerizza circense, figlia di un nobile decaduto che è ben felice di combinare un matrimonio di convenienza, poco importa se contrario alla volontà della ragazza. L’amore per la giovane artista e l’opportunità di consumare fredda la propria vendetta sono i sentimenti che intorbidano la mente di Paul durante le sue messinscene grottesche.
Come già accaduto per Quasimodo del Gobbo di Notre Dame, anche Paul Beaumont, protagonista assoluto della narrazione, dovrà rassegnarsi a interpretare il ruolo di ausiliario nella storia d’amore a lui tristemente preclusa. Egli non potrà mai avere indietro la stima dell’Accademia delle scienze, ma potrebbe soddisfare quella sete di rivalsa appena risvegliatasi rimuovendo il proprio nemico personale e l’ostacolo paterno che divide Consuelo dal suo attraente collega, Bezano. La vendetta, tuttavia, lo condannerebbe definitivamente a un destino tragico.