Un vero inglese, più o meno
Hanif Kureishi, nato a Londra nel 1954 da madre inglese e padre pakistano, è uno dei maggiori scrittori britannici contemporanei. Drammaturgo, sceneggiatore, saggista e romanziere, è stato inserito dal Times tra i 50 più grandi scrittori inglesi dal 1945.
Circa trenta opere, più una vasta mole di racconti e saggi: dai testi teatrali alle sceneggiature, a partire dalla prima pièce, Soaking the Heath del 1976, fino all’ultima The Spank (La sculacciata), rappresentata per la prima volta al Teatro Carignano di Torino nel maggio 2021, alla riapertura post-Covid. In mezzo una carriera inarrestabile, composita ma riconoscibile: Kureishi nasce sul palco del teatro e semina nel Regno Unito una nuova letteratura post-coloniale. La sorgente della sua scrittura sta infatti nella rielaborazione della propria essenza anglo-pakistana, dell’essere meticcio e dell’affacciarsi nella società inglese da “mezzosangue”: ne è simbolo il primo e più noto romanzo, Il Budda delle periferie (1990), che divenne una miniserie per la BBC diretta da Roger Michell con colonna sonora di David Bowie. La storia segue l’educazione dell’anglo-indiano Karim nel sobborgo londinese, che inizia così: “Mi chiamo Karim Amir e sono un vero inglese, più o meno”. Come l’autore. Il rapporto di Kureishi col cinema è sempre stato di scambio reciproco: ha portato la sua prosa e ha avuto in cambio, talvolta, grandi regie. Stephen Frears e Roger Michell sono i suoi registi d’elezione.
Il film decisivo è My Beautiful Laundrette di Frears (1985), uno degli ultimi passi della British Renaissance, che Kureishi sceneggia: Omar, ragazzo gay pakistano di buona famiglia, inizia a gestire una lavanderia con l’aiuto dell’amico e amante Johnny (un giovane Day-Lewis), nell’Inghilterra della Thatcher, tra razzismo, tentazione del crimine e “rischio” dell’omosessualità. I dialoghi dell’autore sono incalzanti, esatti, un fuoco di fila che spacca il capello sociale, sia degli inglesi che dei pakistani. Ed ecco emergere subito l’altro volto della scrittura di Kureishi: una penna dura, anche cinica, cattiva, che non risparmia nulla e sbriciola lo stereotipo (i migranti non sono poveri né arrabbiati), che guarda in faccia l’amara realtà attraverso il filtro della letteratura. La tendenza si conferma negli script successivi del primo Kureishi, Sammy e Rosie vanno a letto (Frears, 1988) e London Kills Me (1991), l’unico da lui diretto prima di lasciare la regia. Lo scrittore è molto adattato, anche nei racconti (Mio figlio il fanatico, Udayan Prasad, 1998) e collabora attivamente alle riduzioni.
Poi arriva l’evoluzione: con la stessa radiografia spietata che applicava alla società anglo-pakistana Kureishi si dedica ai rapporti famigliari e alle derive dei sentimenti. Al “lato rotto delle cose”, come dice il protagonista del romanzo breve Nell’intimità. Patrice Chéreau lo impasta col racconto Lampada di notte e vi trae Intimacy, Orso d’oro alla Berlinale 2001, su soggetto di Kureishi: la storia di un uomo e una donna che si vedono ogni mercoledì solo per fare sesso, con le loro disperazioni, ma senza altre implicazioni. La cinepresa di Chéreau scivola magnificamente sulla superficie dei corpi non belli, trattenendo la carne e l’amore, e genera un paradosso: pur non sceneggiato da Kureishi è Intimacy il suo capolavoro cinematografico. L’autore torna quindi a scrivere per Michell: The Mother (2003) racconta una madre che diventa amante dell’uomo della figlia; Le Week-End (2013), un’anziana coppia al bilancio della loro storia. A volte in forma di commedia, sempre puntata sulle asperità della vita, l’arte di Kureishi passa in quarant’anni dalle conseguenze della “pakistanità” all’abisso dei rapporti umani con lo stesso scandaglio, lo sguardo indagatore, il talento nel mettere in letteratura: non deve stupire perché i temi sono legati, entrambi intrecciati alla durezza dell’esistere che l’autore insegue con una scrittura bella e terribile.