Un bacio lungo dieci anni
Estate del 1950. Nella campagna romagnola Vanni Porelli e il figlio Nicola si apprestano a intraprendere un’impresa, sulla carta, impossibile: riportare in vita la villa, ormai derelitta, appartenuta alla signora Gaia, per la festa di laurea della figlia. La richiesta è perentoria: tutto deve replicare esattamente la festa data dieci anni prima che la signora ricorda come un momento magico. Vanni accetta l’incarico spinto dalla passione mai sopita per Gaia che, proprio in quell’anno, in occasione dell’entrata in guerra dell’Italia, lo aveva baciato in un momento di gioia.
La nostalgia è un tema portante dell’immaginario avatiano e procede parallelamente, a volte incrociandolo, al binario del gotico padano (La casa dalle finestre che ridono, Tutti defunti… tranne i morti, Zeder etc.). Se gli anni ’70 rappresentano l’esplosione e la successiva consacrazione di Avati come autore di genere, il decennio successivo recupera la dimensione sognante dei luoghi cari al regista bolognese, come se gli stessi luoghi, le stesse persone, rappresentassero un upside-down che è al tempo stesso suburra mostruosa e madeleine proustiana.
Di tutti i titoli che fanno parte di questo secondo filone come Sposi (1987) e Aiutami a sognare (1981), Festa di laurea è probabilmente quello che riesce a colpire più al cuore già a partire dall’incipit, con gli archi di Riz Ortolani (premiato con il David) a sostenere la dolce pedalata di Vanni e del figlio tra gli specchi d’acqua e gli alberi della Riviera. Cinque anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale il Paese è in piena fase di riassetto e le differenze, economiche e di classe, sono ancor più marcate.
Come in Parasite (2019) è la villa il teatro dello scontro, simbolo di uno status raggiunto da alcuni e agognato da altri, i villeggianti, sorta di coro greco che ha il compito di mediare tra le altre due forze in campo, l’alta borghesia e la nuova piccola imprenditoria. Perché se da un lato Gaia e il marito “Professore” interpretano lo spirito di una classe capace di cadere sempre in piedi, prima, durante e dopo il fascismo, nascondendo sotto il tappeto il marciume morale e affettivo, Vanni e suo figlio sono l’esatto zeitgeist di un Paese che non si è mai arreso, poverissimo eppure capace di compiere un vero miracolo (italiano).
Festa di laurea è un film sul potere del desiderio, sviluppato come una spirale attorno a una scena madre rievocata ma mai mostrata, il bacio di Gaia a Vanni; potremmo parlarne come di una delle più struggenti storie d’amore non corrisposto viste al cinema, se non fosse che l’integrità del personaggio di Carlo Delle Piane (qui mostruoso, quasi come nel successivo Regalo di Natale) gli impedisce di rimanere totalmente schiacciato dalla fredda indifferenza della signora e di elevarsi, nel finale, al di sopra di ogni finzione. Non è secondaria, infatti, la scelta di Avati di introdurre nella parte finale il personaggio dell’avvocato che si improvvisa filmmaker per immortalare i volti carichi di gioia degli invitati, pedine di un gioco che sanno essere truccato: ciò che resta, alla fine, sarà il filmino di una festa che non si sarebbe mai dovuta svolgere, il sogno ipocrita di una classe che, pur di sopravvivere, fingerebbe di essere qualunque cosa.
A tutto questo Avati contrappone un universo di pura genuinità, fatto di personaggi esposti alle intemperie, ancora capaci di emozionarsi per un tuffo in mare o di vivere un amore estivo. Una sequenza, più di altre, basterebbe a riassumere quanto scritto finora: la festa è finita, gli invitati si sono dileguati, Vanni sta seduto da solo in giardino e vede il padre, pasticcere come lui, uscire dalla villa portando via le pentole dentro cui ha cucinato gli spaghetti che nessuno ha voluto. “Grazie, babbo – gli dice –, sei stato bravissimo” e questi, prima di scomparire oltre una siepe, gli risponde “Io dico di no”.