Riserve
Disponibile sulla piattaforma Mubi, Songs My Brothers Taught Me del 2015 è il primo lungometraggio di Chloé Zhao, regista che ha dominato l’ultima stagione dei premi – Leone d’Oro a Venezia e Oscar come miglior film – con Nomadland, cioè con un film che fa dell’esaltazione di ariosi e immensi paesaggi uno dei suoi punti centrali e, piccola parentesi, chissà quanto questa caratteristica ha contribuito in un anno di chiusura forzata globale alla pioggia di riconoscimenti. Lasciamo questa domanda però da parte, perché il paesaggio, nello specifico quello del South Dakota e della riserva indiana di Pine Ridge, era già assolutamente fondamentale, non solo per l’immediata resa estetica, nell’esordio di Zhao.
A metà strada tra documentario mascherato da film di finzione intimista e “metafisica del paesaggio” di malickiana memoria (del resto, le “badlands” di La rabbia giovane non sono lontane),
Songs My Brothers Taught Me racconta, attraverso la storia di un fratello con voglie di fuga e di una sorella che, invece, di quel luogo riesce a vedere cose che altri non vedono, la realtà delle comunità Sioux della riserva di Pine Ridge, luogo di estrema povertà e falcidiato dalla piaga dell’alcolismo, tanto quanto pregno di un orgoglio identitario e un senso d’appartenenza più o meno espliciti.
Pine Ridge è del resto – destino comune ad altre riserve indiane del Midwest – una della zone più povere degli Stati Uniti, non tanto e solo per le questioni strettamente economiche, quanto anche per una sorta di, per così dire, durezza esistenziale della vita quotidiana, che Zhao riesce a rendere con efficacia proprio per mezzo del contrasto tra la bellezza della natura grandiosa di quei luoghi e la desolazione delle architetture e delle costruzioni. Gli opposti valori simbolici portati dai due paesaggi, il naturale nella sua maestosità e l’umano nella sua miseria, spesso convivono in campi lunghissimi, dando senso alla frase che apre il film: “Tutto ciò che è selvaggio ha qualcosa di malvagio”.
Che Zhao abbia talento visivo si intuisce anche dalla sua capacità di esaltare e dare senso ai dettagli, che siano volti, interni, oggetti o arredamenti, spesso più significativi e testimoni di un’emozione più intima o di una condizione più generale di molte scelte narrative, o della rappresentazione più a tutto tondo dei personaggi: un po’ archetipi e un po’ stereotipi della gioventù alle prese con un contesto difficile e problematico, in qualche modo essi paiono trovare forza e impatto emotivo e narrativo non tanto in loro stessi, quanto appunto se rapportati ai dettagli e agli spazi che li circondano e che la regista riesce ad esaltare.
Songs My Brothers Taught Me, quindi, da un lato mostra uno sguardo già efficace, soprattutto per la capacità di dare senso e “far parlare” geografie e particolari, ma dall’altro è altrettanto acerbo, ancora un po’ timoroso nei confronti delle potenzialità della narrazione, e soprattutto, anche nei suoi aspetti migliori, col retrogusto del già visto.
Songs My Brothers Taught Me [Id., USA 2015] REGIA Chloé Zhao.
CAST John Reddy, Jashaun St. John, Travis Lone Hill, Taysha Fuller, Irene Bedard.
SCENEGGIATURA Chloé Zhao. FOTOGRAFIA Joshua James Richards.
MUSICHE Peter Golub.
Drammatico, durata 98 minuti.