Il gusto del cinema
Prima di essere stato un bravo regista, Bertrand Tavernier (scomparso il 25 marzo 2021, a 79 anni) è stato un amante del cinema, un divulgatore e un operatore culturale, curatore di cineclub e di riscoperte critiche: il suo libro 30 ans de cinéma américain, poi divenuti 50 nella riedizione, scritto con Jean-Pierre Coursodon, è un volume imprescindibile. Questa passione è evidente anche dai suoi film. Per ricordarne e celebrarne l’opera non staremo a citare i migliori o i più celebri, che si possono trovare in giro sulle piattaforme, per esempio nella retrospettiva che gli ha dedicato The Criterion Channel, ma ci dedicheremo agli ultimi due film (escluso il documentario Voyage à travers le cinéma français), inediti in Italia e testimoni del suo eclettismo.
La princesse de Montpensier (2010) è tratto da un romanzo di Madame de La Fayette e racconta una storia di amori segreti e contrastati tra una ragazza, l’uomo che ama e quello che sposa, attraverso lo sguardo del suo tutore, ex soldato che ha combattuto le guerre religiose che infestano la Francia del XVI secolo.
Tavernier si ricollega al cinema d’avventura cappa e spada che già avvicinò nel 1994 con Eloise, la figlia di D’Artagnan, ma che qui assume toni più brutali e realistici, per poi stemperare in un dramma femminista e romantico del quale il regista non riesce a gestire bene le corde emotive, il ritmo narrativo. Lambert Wilson sembra portare su di sé il peso del film che sarebbe potuto essere, la sua disillusione verso il mondo, verso le sue idee politiche e religiose, il suo amore per la conoscenza come antidoto alla guerra, peccato che il resto degli interpreti e del film non seguano quella direzione. Nondimeno, specie nella prima parte, si sente qualcosa che ha sempre caratterizzato l’amore di Tavernier per il cinema: il piacere del set, del gesto cinematografico, della messinscena.
Se in La princesse de Montpensier lo troviamo nei movimenti di macchina con cui solca gli spazi, per esempio riprendendo i combattimenti o le cavalcate, in un film opposto come Quai d’Orsay (2013) è nel ritmo con cui fa muovere i personaggi dentro gli spazi del ministero della difesa, dove si svolge la storia di un giovane spin doctor che deve aiutare il ministro a uscire da una crisi internazionale con un discorso da tenere alle Nazioni Unite. Siamo dalle parti di un cinema molto diverso, satirico e vagamente surreale, tratto dalla serie di fumetti di Blaine e Lanzac, condotto col ritmo frenetico dei walk and talk di Aaron Sorkin e con la descrizione delle dinamiche del lavoro di molta commedia recente: al contrario dell’altro, questo film vede un giovane dover entrare in un modo di volpi, più o meno intelligenti, ma tutte parecchio ambiziose, e cercare di salvaguardare la propria integrità mentre cerca di farsi valere. Se la satira non sempre graffia il giusto, è il gioco della commedia a farsi valere, sorretto da un gruppo di grandi attori: Niels Arestrup premiato col César è eccezionale, ma a Thierry Lhermitte toccano due irresistibili monologhi, quello della teoria dell’evidenziatore e quello su Tintin come strategia di comunicazione (che funge anche da omaggio fumettistico). È qui che si vede l’amore per il gesto cinematografico: in un film in cui tutti si muovono ansiosi ma girano a vuoto, Tavernier immortala le frasi del ministro con un ritmo quasi avanguardistico, isolando parole e sonoro come una bande dessinée dalle implacabili vignette cinematografiche.
Uno dei più grandi amanti del cinema, nel paese cinefilo per eccellenza, ha fatto un film che scava nella parola e nella sua impotenza, nel linguaggio svuotato dalle troppe parole della politica, ma a cui il cinema può ridare vigore con le immagini: un linguaggio a cui Tavernier non ha mai voluto dire addio.