Compagnia schiantante
Chi ha incastrato Roger Rabbit di Robert Zemeckis nel 1988 aveva ribadito come la comicità slapstick e un certo tipo di cinema d’animazione – in particolare, la forma breve dei “cartoon” – hanno sempre avuto un legame fraterno, fin dalle origini con, per esempio, le avventure animate di Charlot realizzate nei primi anni di successo del vagabondo creato da Charlie Chaplin. Lo slapstick e le sue esagerazioni che sfidavano le leggi della logica e della fisica sono anzi in qualche modo sopravvissute in purezza nell’animazione, nella sua coazione a ripetere di disgrazie, sfighe, apocalissi e incapacità dei vari Tom & Jerry, Willy il Coyote, Beep Beep e compagnia schiantante, mentre nell’universo della comicità e delle commedie diventavano quasi “comparse”, ancora decisive nella follie delle screwball e poi a partire dagli anni quaranta sempre più riempitive di commedie sentimentali o di costume.
Insomma, l’essenza illogica, eccessiva, surreale e talvolta visionaria dello slapstick ha trovato nella libertà narrativa e compositiva insita nel cinema d’animazione, e nell’ulteriore libertà dei cartoon di negare ogni minima parvenza di realismo, il terreno fertile per sopravvivere, irriverenza sbeffeggiante e anarcoide di fondo compresa. Tex Avery, del resto, sosteneva di ispirarsi a Mack Sennett, pioniere della comicità muta statunitense.
È proprio Avery la figura che più di altre – senza ovviamente nulla togliere alla genialità dei vari Chuck Jones, Hanna & Barbera e altri – ha spiccato, per visionarietà, fantasia e per certe caratteristiche forti e riconoscibili che gli permisero in certi film di superare i canoni del genere; un autore con tutti i crismi, direbbe certa critica, e una conferma può anche venire dal fatto che la sua fama non sia tanto legata, e sottomessa, a quella dei personaggi da lui creati. Senza dimenticare il più immediato, ma fondamentale, fatto che buona parte dei suoi film siano assolutamente esilaranti.
Riguardando e riflettendo sul suo cinema, innanzitutto, viene meno – sempre che ce ne sia ancora bisogno – il luogo comune per cui l’animazione è diventata per adulti solo nell’ultimo ventennio: basti vedere la ricorrente presenza della morte o la chiara erotomania di Wolf che in film come Red Hot Riding Hood (1943) e The Shoot of Dan McGoo (1945) metteva alla berlina la mascolinità arrogante, sicura di sé quanto inefficace, tanto da portare nel primo caso il lupo protagonista al suicidio.
Tex Avery (nome d’arte di Frederick Ben Avery) esordì negli anni ‘30 alla Warner Bros., dove creò Daffy Duck e Taddeo e contribuì alla definizione di Porky Pig e Bugs Bunny – sua invenzione è il tormentone “What’s Up, Doc?” – per poi trasferirsi nei primi anni ‘40 alla Metro-Goldwyn-Mayer, dove realizzò tanto opere che raccontavano uno scontro tra una preda e un potenziale carnefice, quanto film che superavano questo schema di fondo (Who Killed Who?, 1943; The Cat That Hated People, 1948; The House of Tomorrow, 1949).
La comicità di Avery si basava sul parossismo e sull’assenza di ordine e logica tipici sia dello slapstick che dei cartoon: portati alle estreme conseguenze erano la violenza delle gag, la cattiveria, spesso anche satirica (negli animali sempre più giganti di King Size Canary, 1949, riecheggiava la corsa agli armamenti delle due potenze della guerra fredda), lo sberleffo irriverente insito nell’essenza profonda dei due generi, la manipolazione delle regole dello spazio e del tempo e il ribaltamento del senso delle cose.
Gli oggetti, per esempio, non erano più solamente ostacoli per la maschera comica inadeguata e imbranata, ma quasi entità dalla vita propria – la parata di oggetti viventi sulla luna nel finale di The Cat That Hated People, o la pistola che dopo aver sparato una raffica di colpi ansima stremata con la lingua fuori in Who Killed Who?– o ribaltati del loro senso e utilizzo più comune – Bugs Bunny che suona la carota come un flauto in A Wild Hare (1940). In Dumb – Hounded (1943) è invece l’assoluta manipolazione delle regole spazio-temporali a rendere sempre più furiosa e contemporaneamente del tutto inutile la fuga del criminale Wolf dal cane poliziotto Droopy.
Se in molti altri cartoon c’era una certa logica paradossale di fondo, nel cinema di Avery l’unica regola è l’assenza di logica e di senso. È come se molti suoi film fossero ambientati in una realtà in preda al caos, al nonsense successivo alle apocalissi slow burn della tarda comica muta; non a caso, alcuni momenti ricordano certe comiche, quelle più “irreali”, violente e manipolatrici della logica fisica, di Stanlio & Ollio. C’è quindi la sottolineatura esagerata di una realtà sempre surreale, e talvolta surrealista; così, in Bad Luck, Blackie (1949) il semplice passaggio di un gatto nero fa sì che dal cielo cadano sulla testa del malcapitato mastino, in un crescendo, il classico vaso da fiori, un cavallo, un pianoforte, aerei, muri e navi. È però nelle sue due opere più personali che questa tendenza al surrealismo esplode: la geniale parodia noir Who Killed Who? shakera lo slapstick con Salvador Dalì e Alfred Hitchcock, mentre Symphony of Slang (1951) è un flusso di modi di dire e giochi di parole che diventano immagini, ovviamente tradendo il significato più profondo delle parole dette.
Pur nella prevalenza della comicità visiva, quella di parola, del resto, ha nel cinema di Avery sempre ricoperto con calembour, dialoghi e didascalie un ruolo importante, per ribadire il nonsense di fondo come per lanciare velenose frecciatine di costume o satiriche – in Jerky Turkey (1945) l’arrivo dei padri fondatori nel New England è accolto da un cartello con scritto “Was this trip really necessary?”.
Didascalie quelle citate che si rivolgevano allo spettatore, anche solo per chiedergli se la gag fosse stata divertente. Un ulteriore segno della folle irrealtà del mondo di Avery è proprio la continua rottura della quarta parete e la costante consapevolezza metacinematografica: dai corti della Warner Bros. in cui Taddeo sparava allo spettatore indisciplinato (Duffy Duck & Egghead, 1938), fino agli innumerevoli esempi di consapevolezza dei personaggi di essere parte di un film, accorgendosi di essere nella storia sbagliata, o uscendo per una folle corsa dalla pellicola.