Mabel and Co.
Nel trentennio del cinema muto, il genere comico ha offerto una miriade di film, maschere, protagonisti e autori che la sacrosanta grandezza e fama dei nomi più noti ha inevitabilmente nascosto. È una storia, quindi, quella della comicità muta ricca di anfratti da riscoprire e spolverare e, come sempre accade in questi casi, il cui canone più radicato può e merita di essere allargato.
Proveremo qui a farlo con una serie di appunti, iniziando con il ricordare come lo slapstick in realtà fosse un’invenzione europea che lo statunitense Mack Sennett, con la sua “factory”, standardizzò nel corso degli anni dieci. Fu il francese Max Linder, che Chaplin considerò uno dei suoi maestri, per esempio a creare quella che è forse la prima vera maschera comica della storia del cinema: il “gagà” Max, raffinato borghese, fondamentalmente nullafacente e imbranato ogni qualvolta provava a fare qualcosa. La sua inadeguatezza e la sua sfortuna agivano sullo sfondo dell’eleganza urbana della Belle Époque. Un cortometraggio come Le chapeau de Max (1913) è in qualche modo emblematico di quello che lo slapstick stava diventando: un’azione estremamente semplice – Max che vuole mostrare il suo elegante cappello nuovo alla promessa fidanzata – diventa impossibile a causa di una sorta di ribellione del contesto, che trasforma oggetti e azioni qualunque in ostacoli per la maschera comica.
Già evidente è quella mancata sintonia di fondo, essenza del comico, che lo slapstick racconterà con l’esasperazione della comicità fisica. Lo slapstick europeo però in qualche modo racconterà disastri più, per così dire, realistici rispetto a quello statunitense. Manca, o non è così evidente, la manipolazione dei corpi e delle leggi della logica e della fisica; le cadute, le distruzioni, gli incidenti e le situazioni paradossali sono sì evidenti ed esagerati, ma anche con una loro verosimiglianza di fondo. Se, inoltre, pian piano le maschere dello slapstick a stelle e strisce racconteranno principalmente persone in qualche modo appartenenti ai ceti più popolari o ai margini sociali – il vagabondo Charlot è emblematico – e l’orizzonte piccolo-borghese con i suoi riti e le sue abitudini sarà semmai un’aspirazione, le comiche europee avevano perlopiù ben radicata l’ambientazione della borghesia urbana. Si vedano anche i numerosi corti con protagonista André Deed/Cretinetti, o si riscopra una semi-sconosciuta comica italiana: Lea Giunchi, maschera di buona famiglia alla quale bastavano un paio di pattini per distruggere un importante evento mondano (Lea sui pattini, 1911).
Dall’altro lato dell’oceano, Mack Sennett codifica il genere portandolo al successo, e comici e comiche parte della sua factory diventano celebrità. A partire da Mabel Normand, la quale intorno alla metà degli anni ‘10 aveva così successo che, per fare un esempio, il film d’esordio di Charlot oggi conosciuto come Charlot all’hotel (1915) in realtà si intitolava Mabel’s Strange Predicament. Il punto di forza della sua comicità era proprio quello di andare oltre gli stereotipi attesi da una bella donna, non essere semplicemente l’oggetto del desiderio – spesso la mancata sintonia del comico nasceva dal fatto che fosse il suo desiderio a venire combattuto dal contesto delle convenzioni sociali – ed essere testarda e aggressiva. Lo si vede nei numerosi film recitati accanto ad un altro dimenticato – anzi, “maledetto” per le sue vicende biografiche – della stagione delle comiche mute: Roscoe “Fatty” Arbuckle. Film come Fatty and Mabel’s Simple Life (1915), vicenda di un innamoramento ostacolato dalla famiglia benestante di lei che malvedeva il popolano Fat, o That Little Band of Gold (1915), cronaca delle luci e delle ombre di un matrimonio, innestavano la comicità fisica slapstick in uno schema di commedia sentimentale e sofisticata, inaugurando in qualche modo il percorso che una ventina d’anni dopo porterà all’esplosione della screwball, oltre a sfruttare l’immediato impatto visivo della fisicità contrastante dei due corpi.
La coppia famosa anche per giocare sul contrasto tra un corpo esile e uno enorme è, ovviamente, Stanlio & Ollio. Può sembrare strano, ma tra i brevi appunti di questo pezzo sullo slapstick dimenticato, merita di essere citato anche Stan Laurel, che nel decennio in cui lavorò, attore e sceneggiatore, da solista diede un impulso decisivo all’essenza più surreale del genere, in particolare per quanto riguarda la manipolazione dei corpi e degli oggetti e per la rappresentazione di una maschera comica definitivamente fuori dal mondo, più ingenua e distaccata che davvero a disagio e inadeguata. Film come The Mandarin Box (1923) o Frozen Hearts (1923) sono piccoli e in parte dimenticati gioielli dello slapstick più “surreale”, con più di una gag dal retrogusto quasi metafisico e con un ritmo ben diverso dalla furia degli inseguimenti alla Mack Sennett, simile al graduale crescendo apocalittico della nascente tecnica comica della “slow burn” (Collars and Cuffs, 1923).
Erano in qualche modo delle slow burn anche le comiche con protagonista Charley Chase, la cui maschera ha in qualche modo consolidato il personaggio del maschio un po’ cialtrone in cortometraggi più vicini alla commedia della lotta tra sessi che alla, pur fondamentale, fisicità dello slapstick, di cui però rimaneva una certa cattiveria beffarda di fondo. Protagonista era un uomo che spesso faceva i conti senza l’oste (perlopiù, una donna): in film come Crazy Like a Fox (1926) e Mighty Like a Moose (1927), il crescendo comico della slow burn era parallelo ai sempre più disperati e vani tentativi del protagonista di difendere e nascondere i suoi magheggi e le sue cialtronerie, in un gioco di continua finzione non così diverso dall’imminente commedia alla Lubitsch.
Un ultimo accenno di questa parziale galleria di appunti va a colui che forse è stato l’autore più concettuale e visionario del trentennio slapstick, non a caso amato da Buñuel e da Breton: il geniale Charley Bowers, il quale in opere come Egged On (1926) e There It Is (1928) accelerò sul pedale del surrealismo di fondo del genere, grazie all’utilizzo delle tecniche dell’animazione e alla vivace fantasia visiva e stilistica per la quale, per esempio, i suoi film si basavano spesso sulla creazione di macchinari incredibili, e trovavano la loro detonazione comica nel loro inevitabile fallimento.