La rivoluzione di lacrime e risa
In una scena di Il padre di Fatih Akin, il protagonista, reso muto da una violenza subita, vaga alla ricerca della famiglia perduta. Durante questo viaggio si ferma in un villaggio nel quale si sta svolgendo una proiezione all’aperto: il film proiettato è Il monello. Grazie al film di Chaplin, il protagonista – muto e in terra straniera – scopre un linguaggio universale, che non è solo il cinema, ma un certo modo di intenderlo.
Questa forma di esperanto compie cento anni, un secolo da una rivoluzione, un secolo dalla messa a punto di una lingua comune del cinema, ovvero lo stile di Chaplin. Un’opera capitale per il regista, il suo primo lungometraggio: capitale per questioni personali e universali. Partiamo da quelle personali.
Il film racconta del vagabondo tipico di Chaplin, messo a punto lungo decine di cortometraggi in poco più di cinque anni, che trova un neonato, abbandonato dalla madre che non aveva le possibilità di mantenerlo. Tra i due cresce un fortissimo legame affettivo, messo alla prova dal destino: la madre è divenuta una donna ricca e famosa, che non ha mai dimenticato il figlio perduto. La quotidiana lotta per la sopravvivenza diventerà la lotta per non essere separati. Poco prima della lavorazione del film, Chaplin perse il suo primogenito, nato malato e sopravvissuto solo tre giorni, mentre il suo primo matrimonio naufragava. I diciotto mesi di lavorazione del film – per quei tempi e i ritmi produttivi dei corti comici, un tempo incredibile – furono per il regista il modo per superare quel dolore, per veicolarlo nella costruzione di un’alchimia incredibile con Jackie Coogan, il piccolo co-protagonista che sembra coagulare nella sua espressività tutti gli elementi cercati dal regista: ogni volta che i due si abbracciano, quando nel finale si ritrovano, si sente lo strazio e il sollievo di un sentimento più forte di un qualunque legame di sangue. E qui arriviamo alle questioni universali, alla rivoluzione che Il monello avvia.
Quel dolore, il sentimento privato che non sa e non vuole fermarsi di fronte alla rappresentazione, diventa l’elemento inedito e clamoroso della mistura chapliniana, che gli farà fare il salto da comico di grande successo ad artista che segna la Storia del cinema: il melodramma che s’insinua tra le pieghe delle gag, delle risate, delle trovate slapstick e che da esse trae forza, così come le risate appaiono più liberatorie perché minacciate costantemente dal dolore, così come Charlot è costantemente minacciato dalla polizia e dalle istituzioni. Il conflitto con la società che lo circonda, la borghesia e il suo braccio armato, diventa ancora più duro perché la posta in gioco è più alta, perché il coinvolgimento emotivo dello spettatore fa sì che porti a un’immedesimazione che non può risolversi catarticamente con la risata, ha quasi bisogno della lacrima.
Tutto il prologo batte subito il tasto del pathos, sembra un mélo di Griffith; così, quando dopo vediamo Charlot trovare il bambino e cercare di disfarsene senza farsi vedere dalla polizia, la risata acquista un sapore differente. I tempi comici di Chaplin e le sue ambizioni narrative e registiche sempre maggiori trovano in Il monello il punto di approdo ideale per fondare, come detto, un cinema universale e anche una riconoscibile figura di autore cinematografico, capace di dirigere, scrivere, produrre, musicare e montare. Il monello mostra questa ambizione senza diventare un fardello: passare dai due rulli (una ventina di minuti) delle comiche ai sei del film (la durata originale è di 68 minuti, mentre il restauro in occasione della riedizione anni ’70 è di 53’) è il primo segno di questa hybris che lega moltissimi eroi dello slapstick muto, come Keaton, Lloyd e Stanlio & Ollio, ma che in Chaplin acquistano una forma peculiare, quella del romanzo “melo-comico” in cui dickensianamente (e poi marxistamente, come in La febbre dell’oro o Tempi moderni) raccontare la lotta di eroi poveri contro un mondo che li opprime, che deve opprimerli e che non accetta di cambiare.
Tutte le gag del film si basano sulla prepotenza, sull’accettazione di o la ribellione a uno status quo in cui il protagonista ha la parte socialmente assegnata della vittima, se non del martire: le risse, le scazzottate, le piccole truffe e i conseguenti diverbi con i poliziotti. Persino trovare un posto letto in un dormitorio diventa una battaglia in cui il sotterfugio è l’unico mezzo lecito.
La differenza rispetto ai cortometraggi la fa il forte innesto della poesia, legata al bambino, di afflati lirici in cui il cibo o la sua assenza diventano elementi di sorriso e risata che si aprono sul baratro, che arriveranno all’apice nella danza dei panini sempre in La febbre dell’oro. La sequenza più criticata, soprattutto all’epoca, di Il monello è l’intermezzo onirico prima del finale, dopo che il piccolo è stato portato via dai servizi sociali su richiesta della mamma: Charlot distrutto emotivamente e fisicamente si addormenta sulla soglia della porta di casa e sogna un paradiso in tutto e per tutto simile al suo quartiere, in cui però tutti gli abitanti sono angeli. La ricercata ingenuità delle scenografie e degli effetti per far “volare” gli angeli sono il segno del contatto del vagabondo con il bambino, della sensibilità dell’artista con quella dell’infanzia, l’espressione di una poetica vicina a coloro che racconta tanto quanto allo spettatore che li guarda, capace di arrivare a un pubblico che forse per la prima volta si può definire “globale”, di toccare tutti e ognuno.
A cento anni di distanza, si può affermare che Il monello sia più un laboratorio per i successivi capolavori che un capolavoro in sé, eppure nella limpidezza con cui Chaplin ha dato vita a un modo di guardare il modo c’è la semplicità complessa dei maestri, quelli capaci di andare sempre oltre la superficie. Quelli per cui il cinema – anche e soprattutto quello comico – è un modo per entrare nella vita, quelli che sanno che dietro alla costruzione di una gag può esserci altro oltre alla risata. Quelli che fanno piangere dal ridere e viceversa.
Il monello [The Kid, USA 1921] REGIA: Charlie Chaplin.
CAST: Charlie Chaplin, Jackie Coogan, Edna Purviance.
SCENEGGIATURA: Charlie Chaplin. FOTOGRAFIA: Roland Totheroh.
MUSICHE: Charlie Chaplin.
Comico/Drammatico, durata 53 minuti.