Risate e altre catastrofi
Nel 1779, un operaio inglese di nome Ned Ludd avrebbe distrutto un telaio meccanico ispirando un movimento di protesta in seno alla rivoluzione industriale, il luddismo, che vedeva come nemiche della condizione operaia le innovazioni tecnologiche in fabbrica e si proponeva di distruggerle. Più di un secolo dopo, un po’ del vento di quella protesta, di quello spirito distruttivo sembra arrivato in un altro contesto, quello cinematografico, e con un altro spirito, quello infantile: quando Stanlio & Ollio, o altri comici eroi del cinema muto, distruggono case e oggetti, mettono a soqquadro intere cittadine con ingorghi stradali e battaglie a torte in faccia, il sospetto che possa trattarsi di una sorta di luddismo si fa largo.
Certo, è una protesta che solo apparentemente sembra scevra dalla politica, ma l’accanimento con cui il cinema comico lavora per distruggere o, nelle ipotesi più raffinate, decostruire fa pensare a una scelta precisa, a un’intenzione chiara. Prendiamo l’esempio di Buster Keaton: la sua dinamica spettacolare utilizza la meccanica e la tecnologia, lo stesso autore pare esserne appassionato, basti vedere il rapporto che ha con il treno in Come vinsi la guerra, ma la piega a suo vantaggio, sfida le logiche della rivoluzione industriale e del dominio tecnocratico grazie all’intelligenza umana, magari cambiando surrealmente il senso degli oggetti, come in Una settimana, uno dei suoi corti più belli e famosi, nel quale la costruzione di una casa diventa un atto dadaista di reinvenzione delle funzioni domestiche, in cui l’immagine stessa della casa diventa un esempio di nonsenso e che non può che finire con una distruzione, appunto.
Oppure non c’è politica evidente nella colossale battaglia di torte in faccia in mezzo alla strada di La battaglia del secolo, un grande corto di Stanlio & Ollio (che ispirerà La grande corsa di Blake Edwards), ma sfornare qualcosa come 3000 torte per farne una guerra urbana degna di quelle delle arance di Ivrea ha di sicuro un’ambizione diversa dal gioco dei bambini, dalla foga con cui i più piccoli distruggono per vedere cosa c’è dentro un giocattolo. Nel rapporto della coppia comica con gli oggetti c’è un certo disagio, come se gli attrezzi e gli arnesi anche quotidiani come una scala a pioli certificassero l’inadeguatezza dei due rispetto al mondo: non è un caso che Laurel, quello dei due che aveva il genio creativo della gag, sia il personaggio più spaesato, quello che ha un rapporto distante con il mondo civile. La battaglia contro gli oggetti che parte da Laurel & Hardy e arriva poi a tutta la storia del cinema quindi può non avere implicazioni politiche, ma di sicuro ne ha di psicologiche: i comici lottano per trovare uno spazio in un mondo che glielo nega, che tende a emarginarli, a sostituirli con elementi più o meno automatici. Anche distruggere un solo oggetto può fare la differenza, come il pianoforte al centro di La scala musicale, forse il capolavoro del duo, che deve essere issato in cima a una lunghissima scalinata e poi portato dentro un appartamento: l’impresa dei due sembra quella di Sisifo, costretto per punizione divina a portare su una montagna una pietra rotolante che cade appena raggiunta la cima. A differenza di Sisifo, Stanlio e Ollio si “ribellano agli dei” distruggendo – anzi, facendo distruggere – l’odiato pianoforte.
Che sia contro la cultura industriale o a favore di una liberazione dello spirito infantile, la distruzione nel cinema comico ha spesso un valore liberatorio, per quanto altrettanto spesso illusorio, effimero, perché le regole della società spesso hanno la meglio e ristabiliscono l’ordine costituito, cacciando fuori gli eroi da dove erano venuti. E allora ai nostri amati comici non resta che ripiegare: Jacques Tati osserva la società tecnologica costruirsi e distruggersi da sola, Jerry Lewis – soprattutto nei suoi film da regista – fa della battaglia contro gli oggetti una questione privata, esistenzialista, in cui è lui a tenere fuori il mondo per difendersi, in cui gli oggetti sono gli aggressori. Con l’arrivo degli anni ’60 e i venti di rivoluzione che spirano sul mondo, anche la comicità si fa a suo modo politica e la catastrofe organizzata diventa una forma di lotta.
Nel 1968, non un anno come un altro, esce infatti nelle sale uno dei più grandi film comici di tutti i tempi, sorta di manuale di istruzioni e riflessione teorica su cosa è una gag, come si costruisce, a cosa serve: parlo di Hollywood Party, uno dei capolavori di Blake Edwards, dove quella figura geniale che era Peter Sellers intesse un’ode alla distruzione come stile di vita, come opposizione più o meno consapevole ai meccanismi dello stile di vita americano e borghese, partendo proprio da Hollywood, dal cinema che ha reso quello stile di vita immortale e globale. La comparsa indiana da lui interpretata entra in scena distruggendo nel prologo un intero set cinematografico, cosa che ripeterà poi, in modo più ampio e certosino – per quanto involontario (?) – per tutta la durata del film, passando in devastante rassegna tutti gli angoli della casa che ospita la festa, tutte le stanze, gli oggetti, annientando tutti i dettagli del set ma, ciò che più conta, tutte le difese dei presenti e degli spettatori, coinvolgendoli in una sorta di catastrofico baccanale che è il modo con cui gli anarchici pensavano di cambiare il mondo: una risata vi seppellirà.
Il film di Edwards diventa una sorta di manifesto di un movimento che Emanuela Martini ha definito “catacomico”, in cui la catastrofe era parte integrante del progetto comico e politico di un gruppo di artisti, tra cui John Landis, John Belushi, Dan Aykroyd, il trio Zucker-Abrahams-Zucker e altri, che avevano portato la distruzione a un livello tale di coscienza linguistica da renderla un modo per rompere ogni possibile ingranaggio della società, come i fratelli Marx dello spreco e della distruzione: tra i film di questo movimento, Animal House, The Blues Brothers, L’aereo più pazzo del mondo, ce n’è uno che li somma tutti portando anche se stesso oltre l’orlo della catastrofe, è 1941, il film col quale Steven Spielberg mise a rischio la sua carriera distruggendo ogni singola cosa che entrava nell’inquadratura, mettendo a ferro e fuoco ogni singolo centesimo dei 30 milioni di costo (per l’epoca, una cifra impressionante se si pensa che all’epoca il film più costoso di tutti i tempi ne era costati 55). Un film che mentre mostra la gioia luddista alla sua massima potenza irride la guerra, le gerarchie militari, i valori bellici su cui il cinema e la società americani si sono fondati: e infatti gli voltarono tutti le spalle, John Wayne in primis. Perché la rivoluzione non è un pranzo di gala, e le torte in faccia fanno piacere a chi le guarda, meno a chi le riceve.