Il festival in pillole
BROTHER’S KEEPER di Ferit Karahan – MICHELE GALARDINI
In un collegio che ospita giovani curdi, tutti maschi, l’autorità degli insegnanti adulti non si ferma alle ore di lezione, ma scandisce l’intera giornata al ritmo di punizioni e ordini perentori. Mentre fuori dalle aule e dai dormitori imperversa una copiosa nevicata, una notte Yusuf vede il suo compagno di stanza Memo tornare mestamente a letto, accompagnato da un tutore. Il mattino seguente Memo sta molto male e mentre gli adulti si rendono progressivamente conto della gravità della situazione, le storture fin lì accettate vengono a galla mettendo i professori uno contro l’altro, in un gioco al massacro psicologico che ha come uniche vittime i ragazzini. Ferit Karahan racconta una storia in parte autobiografica – da giovane ha passato sei anni in uno dei tanti collegi presenti in Turchia – scegliendo il punto di vista apparentemente innocente di Yusuf, personaggio spesso passivo eppure fondamentale per scardinare il meccanismo di omertà della scuola. Come László Nemes costruisce il contesto drammatico partendo spesso dalle spalle del protagonista, pedinandolo con la camera a mano, senza osare virtuosismi in piano sequenza, bensì lasciando che il montaggio sveli il vero volto del potere, tradito da micro-espressioni e delazioni. Il collegio come sineddoche dello Stato, fucina non di menti libere bensì di eserciti di sottomessi a loro volta destinati a diventare controllori, e la neve come affascinante catastrofe contro cui nessuno, nemmeno la burocrazia, può niente. Stretto tra questi due poli, Yusuf sceglie di farsi carico del corpo dell’amico, proteggerlo, vegliarlo e combattere la paura con la compassione. Se tutto questo vi ricorda Il figlio di Saul, secondo me siete sulla strada giusta.
INTRODUCTION di Hong Sang-soo – MARIA ELEONORA C. MOLLARD
Tra tinte romantiche, racconto di vita e ricerca di evasione attraverso la “disonestà” dell’arte, Introduction, l’ultimo lavoro di Hong Sang-soo presentato alla Berlinale, è più un intermezzo nella bulimica carriera del regista coreano, un passo indietro, una rincorsa che parte già dalla fotografia, scorticata fino all’osso, quasi a richiamare Stranger than Paradise di Jim Jarmusch. Preferirei parlarvi delle peripezie, benché assenti, e del girare a vuoto esistenziale dei protagonisti del film di Jarmusch piuttosto che del climax di Introduction dove, in una delle classiche scene di bevute alcoliche di Hong Sang-soo, il giovane Young-ho riceve una lavata di capo per i suoi muri emotivi di fronte ai compromessi che richiede l’arte di fare. “Fare e giocare”, urla il vecchio attore al protagonista, “è tutto amore”, in un breve monologo sull’autenticità della finzione, del fatto che, fondamentalmente, siamo semplicemente attori della nostra vita. Lasciate stare Rohmer: Young-ho, esattamente come il Willie del film di Jarmusch, è un esiliato dalla propria esistenza, uno che non riesce a integrarsi nel proprio presente, figuriamoci entrare nella mentalità di quei mestieri difficili che sono l’arte e l’arte di vivere. Ma è il soffio vitale che manca in Introduction, se non in quello slancio, forse l’unico reale, di tenerezza dove Young-ho avvolge sotto una nevicata imprevista l’infermiera che lavora con suo padre, la figura assente per il giovane, quel vuoto negativo su cui gira attorno costantemente. Dalla Corea del Sud a Berlino, dove si è trasferita la sua ragazza, in ognuno dei tre capitoli c’è una donna, e ogni donna rappresenta una domanda a cui il giovane attore non sa rispondere, e noi con lui.
MEMORY BOX di Joana Hadjithomas e Khalil Joreige – MARIA ELEONORA C. MOLLARD
In pochi riescono a gestire uno sguardo nostalgico, eppure Joana Hadjithomas & Khalil Joreige con Memory Box ci riescono benissimo senza scadere nel patetismo. In concorso alla Berlinale, Memory Box è l’equivalente cinematografico, in senso positivo, di un libro pop-up: una vera e propria “Yellow Brick Road” a due voci tra madre e figlia, Maia e Alex. La prima, a sua volta, con la madre ha dovuto lasciare Beirut e quel Libano devastato dalla guerra civile, per rifarsi una vita in Canada e abbandonare i ricordi; la seconda, invece, fa parte di questa nuova generazione che non ha memoria di nulla se non della durata di un video su TikTok. Ma la condivisione, quell’atto incredibile che pratichiamo nel condividere qualcosa con qualcuno, attraversa trasversalmente ogni generazione. Così, quando a casa – da parte della sua migliore amica di gioventù – arriva per Maia una capsula del tempo, Alex non può fare a meno di scendere nella tana del bianconiglio del passato della madre – a sua insaputa – e affrontare il viaggio, seppure tramite social, con le amiche. Un film sulla memoria, su come la memoria si scrive e riscrive costantemente e, nonostante la madre di Maia consigli alla figlia di non aprire la porta sul passato perché “puzza”, è la netta distanza che bisogna colmare tra ciò che ricordiamo, ciò che vogliamo ricordare e ciò che è stato realmente a definire la nostra esistenza. L’adolescenza di Maia, dai suoi diari ai bellissimi scatti, è ebbra di parole e pensieri, carica di vita, nonostante si svolga su quel palcoscenico della follia che è la guerra. Memory Box è la nostalgia di un’estate infinita che, per dirla con Nescio, esisterà sempre finché ci saranno giovani. Joana Hadjithomas e Khalil Joreige ci mettono il loro vissuto e il film, supportato da una meravigliosa colonna sonora, racconta di una vita color sangue. Poteva essere l’ennesimo “film sul Libano” ma, in realtà, parla di quel “grande spazio vuoto della nostra coscienza”, una volta diventati adulti.
PETITE MAMAN di Céline Sciamma – MICHELE GALARDINI
Nelly, 8 anni, ha appena perso la nonna. Nei giorni subito successivi aiuta i genitori a ripulire la casa di famiglia, ormai vuota, ma una mattina sua madre, Marion, decide di andarsene senza lasciare detto niente. Quello stesso giorno Nelly, mentre gioca nel bosco, incontra una bambina che si chiama proprio Marion. Dopo Ritratto della giovane in fiamme Céline Sciamma sceglie nuovamente un movimento all’indietro, una carrellata nel tempo per raccontare la sua storia. Ma se nel bel film in costume del 2019 il meccanismo era quello canonico del lungo flashback, che abbracciava quasi per intero il racconto, in Petite maman il movimento è interiore, per potere aderire al realismo magico del vero narratore, cioè Nelly. Il suo punto di vista annulla in partenza ogni pretesa di verosimiglianza o di inquadramento rigido del film in un genere, e sceglie di rispondere costantemente a una domanda (che la regista ha ammesso di essersi posta nei momenti di difficoltà): “Cosa farebbe Miyazaki?”. Non c’è nessun wormhole che collega le due case, quella dove si trova Nelly e quella della “petite maman”, perché si tratta dello stesso edificio, i cui interni restano invariati e inviolati da un’epoca all’altra; la Marion di 8 anni non è un fantasma e non c’è nessuna magia o intermittenza della vita che permetta al suo futuro marito di vederla e sorriderle come fosse, semplicemente, la compagna di giochi della figlia. È un movimento interiore che permette l’apertura di questa faglia, è il tentativo di colmare una distanza impossibile attraverso il cinema, ed è un atto quasi divinatorio da parte della regista che anticipa uno dei traumi del presente: il desiderio negato di salutare chi ci lascia.
MR. BACHMANN AND HIS CLASS di Maria Speth – MARIA ELEONORA C. MOLLARD
Siamo sinceri: quante generazioni di studenti e professori sono state rovinate dal film L’attimo fuggente? E quanti tra di noi hanno riso della parodia creata dalla follia del Saturday Night Live? Stranamente ciò non accade nel bellissimo documentario Mr. Bachmann and His Class, vincitore dell’Orso d’argento Premio della Giuria alla Berlinale. Nel lavoro di tre ore e mezza, da ingollare in scioltezza, Maria Speth non ha il lucido, seppure umano, distacco di Frederick Wiseman, ma ci si avvicina molto, soprattutto perché la scelta del soggetto scelto prende vita, da solo, indipendentemente dalla camera. Dieter Bachmann insegna in una scuola media (il periodo peggiore per uno studente e non solo), la Georg-Büchner-School, nella piccola cittadina di Stadtallendorf, in Germania, famosa per la sua storia di immigrazione e di matrice industriale. Insegnare a una classe di pre-pubescenti è meno piacevole che giocare a campo fiorito sulle mine inesplose in Indocina, figuriamoci se la stessa classe è composta da bambini provenienti da quasi una decina di paesi diversi (dall’Europa all’Africa). Il filo rosso è il tedesco, una lingua da imparare per approcciarsi a tutte le materie ed essere smistati l’anno dopo, a seconda delle capacità, in varie scuole. Il lavoro di Mr. Bachmann pare impossibile eppure ci riesce con un approccio leggero, mai superficiale, e autorevole nelle sue “punizioni”. La Georg-Büchner-School ha la fortuna di avere un insegnante che comprende quanto ogni studente sia un mondo a parte, e come un approccio mirato possa sortire effetti interessanti. Più At Berkeley e meno High School di Wiseman, la bellezza deldocumentario riposa non tanto nel metodo inclusivo dell’insegnante quanto nell’usare le differenze tra alunni come luoghi deputati per la costruzione della propria, unica e meravigliosa identità, contrariamente alla versione del multiculturalismo di oggi che, a differenza degli anni ‘90, vorrebbe vederci tutti a una dimensione sola.
UNA PELICULA DE POLICIAS di Alonso Ruizpalacios – MICHELE GALARDINI
Quanto è difficile essere un poliziotto a Città del Messico? Per rispondere possiamo pescare nella storia del cinema, soprattutto quella degli ultimi 20-30 anni, e scegliere l’immagine che meglio aderisce alla nostra idea: l’agente nato negli stessi quartieri malfamati dove ora è chiamato a imporre l’ordine, il capitano corrotto che si comporta come un piccolo re, l’infiltrato nei cartelli della droga la cui vita è irrimediabilmente scissa, oppure il killer pentito che rievoca la quotidiana mattanza per le strade (pensate, per esempio, a El sicario – Room 164 di Gianfranco Rosi). Consapevole di questo enorme bagaglio visivo di partenza, Ruizpalacios decide di mettere in crisi l’aspettativa dello spettatore, il suo preconcetto nei confronti di un prodotto che, complice il marchio Netflix, potrebbe apparire come riciclato o semplicemente adattato ai parametri estetici della piattaforma. Invece il gioco è più sottile, già dalle prime sequenze: i due protagonisti, Teresa e Montoya, abitano la scena come personaggi di un documentario ma si approcciano con estrema confidenza alla macchina da presa, posizionata in punti troppo strategici per far pensare a una lunghissima serie di fortunate circostanze. In realtà sono entrambi attori, entrati in incognito nell’Accademia di Polizia per calarsi nelle vite dei veri Teresa e Montoya, e chiamati a una doppia operazione: il re-enactment finzionale delle storie vere, che occupa la prima metà del film, e il backstage documentaristico da studenti infiltrati che rimette in gioco tutto nel secondo atto. Il risultato è un film bifronte, che avrebbe potuto creare non pochi problemi di scrittura all’autore e di lettura allo spettatore ma che, al contrario, riesce a sviluppare in modo sorprendente sia il “come” (il dispositivo narrativo, la forma sperimentale) che il “cosa” (il contenuto, le storie). Meritato l’Orso d’argento come Outstanding Artistic Contribution.
PER LUCIO di Pietro Marcello – MICHELE GALARDINI
Clown, jazzista, sognatore, poeta, eroe, cantante, profeta, provocatore e una serie infinita di altre etichette che chiunque può provare ad attaccare sul corpo irsuto di Lucio Dalla per vederle, poco dopo, cadere al suolo mestamente. Per questo nel documentario di Pietro Marcello esse compaiono solo come paratesto, nella sinossi, lasciando che le immagini parlino d’altro, slegandosi dalle maglie del biopic per diventare testimonianza di un momento, quello dell’Italia a cavallo tra anni ’60 e ’70. In quegli anni, mentre il Paese compie il salto decisivo oltre la tradizione rurale per atterrare nel Boom, Dalla emerge come voce libera, personaggio indecifrabile: artista e contabile, bohémien e opinionista politico. Dopo il personaggio di Pulcinella, intermediario tra vivi e morti e guida del bufalo Sarchiapone in Bella e perduta, il ruolo di traghettatore qui è assegnato a Tobia Righi, prima amico e poi manager di Lucio per molti anni, testimone sincero, giudice gentile. Il racconto, infatti, inizia e termina con due soglie: un cimitero e un treno in partenza. In mezzo c’è tutta la curiosità di Pietro Marcello che, al pari dello spettatore, osserva con occhi sognanti i filmati d’archivio di un’Italia al bivio, palcoscenico mutevole su cui Dalla danza e suona come un satiro, cantandone le contraddizioni. Più che un documentario una lettera d’amore che, rinunciando in partenza a raccontare tutto, diventa a sua volta parte della storia, recuperando immagini perse e inventandone di nuove. Per Lucio è un’opera calorosa, carica di affetto che, a dispetto della presunta freddezza del film di montaggio, espande i limiti del racconto biografico per avvicinarsi il più possibile alla vita, attraverso il cinema.
WHEEL OF FORTUNE AND FANTASY di Ryusuke Hamaguchi – MARIA ELEONORA C. MOLLARD
La vita è un tutto che tende a diventare nulla, sopratutto quando ci si lascia alle spalle la gioventù. Ryusuke Hamaguchi con Wheel of Fortune and Fantasy, in concorso alla Berlinale, mette in scena in tre atti (conta di questi capitoli il film) il rimpianto, la malinconia, la tenerezza perduta, la cattiveria sterile e tutto lo spettro di emozioni umane che sembrano governarci, nella tappa obbligata tra la gioventù e la maturità.Sono tre storie fatte di coincidenze fortuite o meno, epifanie che diventano scelte, addii lasciati marcire tra i denti, vite non vissute, il peccato e la possibile redenzione nel non averle vissute. “Once Again”, l’ultimo segmento del film, è il perfetto contraltare del primo episodio “Magic (or Something Less Assuring)”, dimostrando, in tal modo, che Hamaguchi è abilissimo in questo suo minuetto di esistenze raccontate con delicatezza. In “Magic” il triangolo amoroso che si viene a creare tra Meiko, il suo ex Kazuaki e Tsugumi è il catalizzatore perfetto per passare al setaccio le proprie esperienze e capire qual è stato il primo errore, il primo rimpianto sentimentale che ha definito le nostre esistenze. Invece in “Once Again” l’errore è già stato fatto, ora bisogna solo chiedere scusa, forse a una persona incontrata per caso e scambiata per un fantasma nato dai propri ricordi, sperando di essere in grado di perdonarsi per le occasioni perdute.In tutto il film assistiamo a un una girandola di personaggi femminili fallibili e perciò umani, come Natsuko e Nana, le protagoniste dell’ultima storia: scoperchiano la tomba di un passato che con un involucro stremato, forse, dopotutto può essere ancora riutilizzabile per costruire una nuova vita.