Potere alla regia
Pieces of a Woman inizia ed ecco subito apparire qualcosa che non si vede quasi mai: la regia. Siamo nel tempo delle regie invisibili, che sotto l’alibi di servire il racconto nascondono l’assenza del lavoro sull’immagine, oppure delle regie serializzate, come quelle del cosiddetto “film Netflix” che propone spesso la stessa grammatica automatica e leggibile. Kornél Mundruczó esegue il gesto contrario: torna alla famosa frase-manifesto di Peter Greenaway, «il cinema è troppo importante per lasciarlo ai narratori di storie». Così la vicenda di Martha e Sean, lei incinta e lui pronto ad assisterla, si apre in un piano sequenza vertiginoso: 23 minuti che raccontano la scelta del parto in casa, l’improvvisa rottura delle acque, l’assenza della dottoressa e l’arrivo dell’ostetrica sostitutiva, quindi l’effettivo momento della nascita. Mundruczó, grazie alla fotografia di Benjamin Loeb, si aggira con la sua cinepresa in questa installazione: sì, perché la “donna che partorisce” sembra un’opera museale in movimento in cui si può camminare, passeggiare dentro. Trovando prima un idillio, l’attesa di un figlio come naturale conseguenza di una storia d’amore, poi un graduale scivolamento drammatico della situazione, poi ancora l’ipotesi di una ritrovata serenità, quando il bambino nasce, e infine il dramma, la perdita del neonato.
Tutto ciò viene restituito attraverso una dialettica tra campo e fuori campo, visibile e invisibile, sostenibile e osceno, nel senso etimologico di “fuori scena”, come può esserlo un neonato morente che cambia colore e diventa cianotico, facendo irruzione in parte o totalmente nell’inquadratura. La cinepresa gira intorno ai protagonisti, avviluppa i corpi di Vanessa Kirby e Shia LaBeouf, registrandone il graduale erodersi dell’umore, l’affacciarsi di una tragedia fino ad allora impensabile: solo nell’ultimo tratto focalizza sul ”fatto”, il parto nel letto, disegnando la fine della parabola. Lo shock estetico che provoca l’inizio è paragonabile, su diverse latitudini, a quello che apriva Il figlio di Saul di László Nemes, un altro ungherese, un altro piano sequenza furioso (lì un pedinamento, qui un avvicinamento) per calarsi in medias res nel contesto drammatico.
È dunque grande regista, Kornél Mundruczó: ma non come si intende oggi di solito, ovvero un grande “scrittore di una storia cinematografica”, bensì proprio regista nel senso di ”pensatore della regia”. Il trauma che avvolge l’inizio di Pieces of a Woman è infatti propedeutico a portarci dentro il racconto: Martha ha perso il bambino, è disperata insieme a Sean, la coppia affronta la classica crisi dopo la scomparsa di un figlio non solo desiderato, ma proprio visto, toccato, tangibile. E la severa madre di lei, incarnata in Ellen Burstyn, si presenta come l’ennesimo punto di scontro: tutti vogliono perseguire l’ostetrica negligente, Eva, la quale andrà a processo montando un grande caso mediatico.
Certo, c’è naturalmente una storia al centro di Pieces of a Woman, che il regista ha tratto dalla pièce teatrale autobiografica della partner Kata Wéber, primo film che lo porta fuori dall’Ungheria e verso gli Usa, per la precisione a Boston. Qui, nell’affresco femminile, Mundruczó si muove tra le donne di Cassavetes e di Woody Allen, quello più bergmaniano. C’è perfino l’ombra di Fassbinder, in particolare pensando a Paura della paura, che nella sostanza si pone agli antipodi ma ritrova nell’anima di Martha lo stesso graduale incartamento che coincide con l’esperienza del parto. La storia è facilmente sintetizzabile nel titolo, “pezzi di una donna”, che potrebbe indicare una donna a pezzi oppure una donna che quei pezzi deve trovarli, ossia realizzare i tasselli giusti per ricomporsi come un puzzle. E le tessere esatte stanno tutte nel dilemma etico: ha davvero sbagliato l’ostetrica? È giusto farla condannare per ottenere soddisfazione? Dove finisce la giustizia e inizia la vendetta? Insomma, come ricomporsi? La frattura viene rappresentata didascalicamente in un ponte in costruzione, di cui solo alla fine si toccano le due metà. Intanto il problema di Martha si sostanzia in un triplice contrasto, con il marito, con la madre e con l’imputata, tutti racchiusi nel macro-scontro con se stessa, finché non troverà la sua strada per ottenere una possibile pacificazione, non scritta in un codice penale ma sempre e del tutto personale.
Mundruczó aveva raccontato l’Ungheria con metafore ardite e trovate sfacciate: la rivolta dei cani in White God, che manovrava il film con animali per alludere alla xenofobia dell’oggi; il rifugiato siriano di Una luna chiamata Europa, che per sfuggire all’autorità si metteva a volare, culminando nella scena della stanza che gira vorticosamente. E si torna di nuovo alla regia: perché Pieces of a Woman resta un film di regia, non solo nel piano sequenza iniziale. Tra i tanti c’è un momento fondamentale, il ritrovo domestico dove la macchina da presa lascia gli altri e segue la protagonista: nella famiglia si espletano formalità, si parla del più e del meno, ma l’obiettivo tallona il movimento della donna catturandone la sottile inquietudine, suggerendo che qualcosa è fuori posto, che c’è un malessere pronto ad esplodere. E infatti esplode. L’obiettivo segue Vanessa Kirby e ce lo anticipa, tanto che la sua oscillazione interiore inchioda come un thriller. Rifiutando la cinepresa come mero accessorio, Mundruczó è uno dei pochi ancora in grado di costruire l’immagine.
Pieces of a Woman [id., Canada/Ungheria/USA 2020] REGIA Kornél Mundruczó.
CAST Vanessa Kirby, Shia LaBeouf, Ellen Burstyn, Iliza Shlesinger, Benny Safdie.
SCENEGGIATURA Kata Wéber. FOTOGRAFIA Benjamin Loeb.
MUSICHE Howard Shore.
Drammatico, durata 126 minuti.