Fly Me to the Moon
Ognuno hai i suoi ricordi personali sulla Luna, anche chi nel luglio del ’69 non era davanti alla tv a seguire il momento in cui l’uomo vi mise piede. Sono ricordi romantici, magari. Oppure, almeno nel mio caso e in quello di molti cinefili, sono ricordi legati al cinema. Per esempio: Frank Sinatra canta Fly Me to the Moon, la macchina da presa quindi vola nello spazio, danza lo swing anziché il valzer kubrickiano, atterra sulla superficie lunare e, come una sonda, comincia a cercare qualcosa intorno alle rocce. Dietro una di esse, disteso, c’è il corpo di un’astronauta, non lo vediamo ma lo sappiamo sereno. È il corpo di Hawkins, che ha scelto di morire nel luogo che aveva sempre sognato di raggiungere, la Luna.
È il bellissimo finale di Space Cowboys, film di Clint Eastwood non tra i più celebrati della sua carriera, ma che in quella sequenza sembra realizzare il sogno dell’amico immaginario della protagonista di Inside Out: “Portala sulla Luna per me”.
La Luna però, proprio perché è al contempo un luogo mitico, magico, alieno eppure “a portata di mano”, raggiungibile, è diventata il centro di elezione di un tipo di fantascienza che calca la mano più sul termine “scienza” che sulla fantasia e ha i suoi predecessori nei romanzi di Verne (Dalla Terra alla Luna e Intorno alla Luna), di Wells (I primi uomini sulla Luna) e nell’operetta di Offenbach che poi diede il titolo al capolavoro di Georges Méliès, Viaggio nella Luna (1902), considerato il primo film di fantascienza propriamente detto.
Certo, all’inizio del secolo, la scienza intorno alle possibilità dei viaggi lunari era meno che pioneristica, sebbene proprio Verne ebbe alcune intuizioni, e poi a Méliès – lo sappiamo – la realtà interessava infinitamente meno del poter creare mondi impossibili con le sole armi del cinema. Nonostante questo, l’immagine della Luna con l’astronave conficcata nell’occhio è, senza alcun dubbio, l’immagine ufficiale della Luna al cinema, insieme a quella gigantesca che Elliot e l’extraterrestre attraversano in silhouette in E.T. di Spielberg (1982).
Space Cowboys poi concretizza un discorso che la fantascienza lascia intendere in modo evocativo, ovvero che davvero lo spazio è l’ultima frontiera di Star Trek, che davvero raggiungere dei luoghi dove nessuno è mai stato prima è il centro dell’agire umano e che la conquista dello spazio è connaturata all’uomo, come le terre disabitate per il western. Lo dice benissimo Una donna nella Luna di Fritz Lang (1929), film nel quale il maestro tedesco parte da un romanzo della moglie Thea von Harbou: il viaggio nello spazio, riprodotto con incredibile realismo e il consueto gusto di Lang per la grandiosità dell’immagine, è uno scontro tra il senso del viaggio e della scoperta e l’avidità, tra la conoscenza di nuovi mondi e delle possibilità dell’uomo e la voglia avida di ricchezza. Il film comincia con una “diligenza” spaziale – quattro uomini, una donna, due bambini – in viaggio, alla ricerca di presunte miniere d’oro: proprio come un western classico.
Il modo di concepire cinematograficamente la Luna però resta legato a Méliès: uno dei film più significativi prima del ’69, ovvero Uomini sulla Luna (1950) di Irving Pichel e George Pal è una versione ampliata in chiave kolossal e rigorosa di Viaggio nella Luna, mentre il primo film fantascientifico italiano – La morte viene dallo spazio di Paolo Heusch (1958, subito parodiato da Totò sulla Luna) – richiama l’attenzione al lato drammatico del film di Lang, grazie anche al lavoro fotografico di Mario Bava.
L’impresa dell’Apollo 11 (raccontata da un recente e omonimo documentario di Todd Douglas) cambiò per sempre la Luna ai nostri occhi, e quindi anche a quelli del cinema: se prima era un obiettivo, adesso era una possibilità, un ricordo, un’azione da replicare magari o da parodiare, come in Moonwalkers di Antoine Bardou-Jacquet (2015) o Operazione Avalanche di Matt Johnson (2015).
E così il cinema lunare diventa soprattutto il racconto degli uomini che fecero l’impresa, come Neil Armstrong in First Man di Damien Chazelle, o che non la fecero, come l’Apollo 13 del film di Ron Howard (1995). Più che la fascinazione fantastica per l’inesplorato resta quindi, come nel western, la stima per gli esploratori, per i pionieri e quando si accosta ancora la luna alla fantascienza e al futuro, come in Moon di Duncan Jones (2009), è per esplorare il lato oscuro dell’uomo prima che quello del satellite.
Perché come insegna Kubrick in 2001: Odissea nello spazio (1968) prima dei Pink Floyd, la Luna è uno specchio nero dentro cui è riflessa la storia del genere umano e di ogni singolo uomo. Quando l’abbiamo “scoperta”, abbiamo aperto il vaso di Pandora, forse, ma è nella nostra natura continuare ad aprirli tutti quei vasi, uno dopo l’altro. Prossima tappa: Marte?