Se i selfie sono una cartina tornasole della solitudine, la violenza è tanto più vera quanto più è telegenica.
Manca meno di un anno al ventesimo anniversario dell’attentato alle Torri Gemelle, quando la televisione vinse, per tutti noi grandi e piccini, un ipotetico premio per essere stata il medium che ha sancito meglio quanto fosse importante e funzionale la telegenia per la violenza. Parlare della narrazione della violenza, dai casi più crudi e recenti di Willy Monteiro Duarte e Maria Paola Gagliano, può rivelarsi un terreno poco piacevole da attraversare, tanto quanto un campo fiorito (il gioco) o minato in Indocina. Si rischia di cadere nella retorica reazionaria, nei goffi propositi propedeutici e moraleggianti, senza considerare che è impossibile slegare il discorso dall’esperienza personale, ossia una visione faziosa e inquinata della fruizione dei casi di cronaca nera attraverso le immagini (in questo caso televisive).
Sia l’esecuzione di Fabrizio Quattrocchi, sia le foto sadiche di Abu Ghraib (casi scoppiati nell’aprile del 2004) erano già visivamente fruibili tramite gli antesignani dei primi smartphone (non erano più semplici cellulari, un esempio? Il Nokia N70) da noi quasi diplomandi – chi scrive è nata nel 1986 – tra una lezione e l’altra; eppure, una volta tornati in quella che un tempo era, per i più fortunati, l’unica comfort zone, ossia casa nostra, ci rimettevamo sempre alla cattedra immaginaria della televisione in cui potevamo esperire appieno i video di violenza quotidiana.
Le prime esecuzioni di Al Qaida furono scioccanti per noi ragazzini cresciuti tra la violenza analogica delle mura domestiche e del bullismo subito dai nostri coevi, ma stavamo sviluppando un doloroso callo grazie a siti come Rotten.com e al bombardamento costante televisivo di analisi su analisi, opinionisti ed esperti, privi di coordinate in quel mondo nuovo per spiegare tali orrori.
Eppure era la generazione cresciuta con le immagini dal Vietnam e i bonzi che si davano fuoco. Loro, quanto noi adolescenti, ignoravano all’epoca che eravamo l’obiettivo di ogni atto di terrorismo (11 settembre e non solo), lo specchio che doveva rimandare un’immagine da veri eroi della democrazia nel caso dei soldati di Abu Ghraib: per i terroristi diventavamo vittime se riuscivano a instillarci la paura tramite la forza sorda delle immagini – e in questo negli atti di terrorismo ci sono molti meccanismi della pubblicità; per i soldati seviziatori, invece, diventavamo una cassa di risonanza per un ego svilito da una guerra, in Afghanistan, che si stava perdendo, e dalla dislocazione in un posto lontano dall’azione attiva.
Il comportamento dei media, in particolar modo nella tragedia di Maria Paola Gagliano, tamponata e uccisa dal fratello mentre viaggiava in scooter insieme al compagno Ciro Migliore, un ragazzo transgender, ha rivelato, ancora una volta, l’inadeguatezza della televisione nel praticare quell’esercizio sempre più raro dell’empatia e nel mettersi in linea con lo spirito dei tempi, trattando una tragedia con superficialità e totale ignoranza sui discorsi sempre più attuali dell’identità di genere.
In questo la televisione si comporta come un catalogo di moda degli orrori umani, con lo stesso atteggiamento, e non solo economicamente parlando, dell’industria pornografica, provando spesso ad assolvere i criminali riducendo tutto a una dimensione sola. Come nei casi di femminicidio, dove la spinta mediatica è sempre superficiale, perde subito di slancio, e noi con loro, forse perché anche noi siamo, per dirla con William Holden in Quinto potere “la televisione incarnata, indifferente alla sofferenza, insensibile alla gioia (…): il quotidiano fallimento della vita è solo una terribile commedia”’.