Il festival in pillole
ÉTÉ 85 di François Ozon
Alexis scava la terra sulla tomba dell’amante David: anche noi dobbiamo scavare, per vedere cosa c’è sotto la sabbia di Été 85. Il nuovo film di François Ozon è tutto giocato sulla profondità dietro la superficie. L’archetipo del teen movie queer (una storia gay nell’arco di un’estate) viene frequentato per sabotarlo, per riempirlo di ambiguità, di simboli e dubbi. Su tutti: che differenza c’è tra un amante reale e uno idealizzato, ovvero ”l’amico dei tuoi sogni”? Dove la realtà deraglia e scivola nella letteratura? Ozon crea un universo gender fluid e lo riempie di pulsioni dark, a partire dai Cure, allestisce un racconto cinefilo (naturalmente Rohmer, che ”continua” nella presenza di Melvil Poupaud) che non si rifà al vero ma alla finzione, come in Swimming Pool e Nella casa. L’amore disperato, il ballo sulla tomba, i riflessi e i doppi ozoniani vengono convocati per la scoperta dell’omosessualità, la costruzione di sé e del proprio carattere e soprattutto per la necessità di ”sfuggire alla tua storia”. È tutta una questione di messa in scena, quindi di cinema, quindi ancora di libertà. La bolla del coming of age, in cui si può andare allo stesso modo con uomini e donne, fa rima con la serie di Guadagnino We Are Who We Are, i due protagonisti sono in assonanza. Il regista gira fluidamente con la sua magnifica cinepresa, accarezza corpi e spazi, lascia sesso e morte fuori campo. Ozon è ormai il più grande nel fare questo tipo di film: una storia al primo livello che si avvita in abisso e ne contiene altri. Un film da vedere due o tre volte, da sbucciare come una cipolla per raggiungere l’ultimo strato, il più profondo. Ma questa è solo una pillola. Capolavoro.
LE EUMENIDI di Gipo Fasano
Notevole esordio nel lungometraggio del ventisettenne Gipo Fasano. Il giovane regista installa Le Eumenidi, terza tragedia dell’Orestea di Eschilo, nel quartiere Parioli di Roma. Seguiamo la serata di un ragazzo, cameriere in un ristorante, che ha commesso un omicidio: nella prima parte, lavora col braccio fasciato, fuma una sigaretta, vaga per la città. Il racconto da subito ibrida i registri: riassume la sezione dell’Orestea, si apre in un inseguimento videoludico, lavora per didascalie, propone un contemporaneo in bianco e nero. Mostra lo svolgimento di una serata per fotografie. Poi, nella seconda parte, il protagonista viene raggiunto dagli amici e inizia una notte brava, tra feste e cocaina. Le Furie, come sempre, lo inseguono. Ma non lo raggiungono, perché qui c’è una comoda autoassoluzione. L’Orestea si addice all’oggi: lo sa Antonio Capuano che in Luna Rossa l’aveva riscritta tra i camorristi. Lo sa anche Lauren Groff, che nel romanzo Fato e furia la insinuava sotterraneamente nell’abisso della coppia. Così Fasano, che piega la povertà alle esigenze di scena e costruisce uno sperimentale italiano: girato con un “no budget” (9000 euro e un cellulare), con l’aderenza scientifica al linguaggio romano – bestemmie comprese – che crea un contrasto spiazzante col mito ellenico ricaduto nel presente. Una tragedia non moderna, ma contemporanea: una ricognizione sui ragazzi della Roma bene oggi, sui “kids” della capitale che bevono, pippano, uccidono per noia.
DES HOMMES di Lucas Belvaux
Francia, 2003. C’è un bolso Gérard Depardieu, sbronzo e rissoso. Fa irruzione in un pranzo di famiglia e rivolge un insulto razzista a un arabo. Flashback: lo stesso Depardieu, da giovane, nella guerra d’Algeria. Affronta il rimosso di una nazione Lucas Belvaux, regista di rara intelligenza, che rimesta nei divari culturali (Sarà il mio tipo?) e nelle ombre della politica (A casa nostra). Qui, in altalena tra presente e passato, incide l’affresco di un personaggio ruvido, respingente, alla deriva, per poi svelare gradualmente i motivi del suo essere oggi. Ma, più che di ragioni, si tratta di sensazioni: quelle seminate in un conflitto folle, dove francesi e arabi si sparano addosso, si tradiscono a vicenda, torturano e uccidono. Chi ha fatto questo? “Des hommes”, uomini. Come noi e tutti. La struttura stratificata del racconto, purtroppo, si perde nel suo farsi, con la perenne voice over che insinua il senso della guerra, guardando ai racconti interiori di Marguerite Duras, ai palazzi della memoria di Robbe-Grillet e al nouveau roman. Mai, però, si sfiora la profondità di quei maestri, restando piuttosto in superficie, così la voce fuori campo finisce per appesantire la parabola che non si eleva, procede senza guizzi, anche nelle svolte meno previste. Resta la statura del regista. E il duello Depardieu-Darroussin, ci mancherebbe altro.
PALM SPRINGS di Max Barbakow
La rivelazione del Sundance arriva alla Festa di Roma. Il giorno della marmotta di due invitati a un matrimonio, un ragazzo fidanzato (e tradito) e una giovane, pecora nera della sua famiglia: sono costretti a rivivere lo stesso giorno e s’innamorano. Il cinema indie americano cucina la rom-com nella salsa del loop temporale, inserendosi nel vasto sottogenere alla Ricomincio da capo, che si applica ormai a qualunque registro e formato (l’horror Auguri per la tua morte, la serie Russian Doll). Qui, nonostante la chimica tra gli interpreti Andy Samberg e Cristin Milioti, il regista Max Barbakow non riesce a ravvivare la materia, limitandosi a un ripasso di prammatica, facendo ironia sull’ipocrisia dell’essere coppia (la fidanzata del protagonista) e sull’istituzione del matrimonio, che non c’entra niente col sentimento. Nyles e Sarah si avvicinano, s’innamorano, ci mettono vari ”repeat” per fare sesso, strappano qualche sorriso, ma molto è sostanzialmente previsto. L’eversione si stempera presto in una commedia tutto sommato educata, illuminata solo dagli ingressi in scena di J.K. Simmons. E infestata dal fantasma di Bill Murray che fa capolino.
SEIZE PRINTEMPS di Suzanne Lindon
Esordio al lungometraggio della figlia di Sandrine Kiberlain e Vincent Lindon, 20 anni, anche attrice protagonista. La sedicenne Suzanne è una liceale che un giorno passa davanti a un teatro, intravede l’attore Raphaël, 35 anni, e se ne innamora. Suzanne Lindon nell’arco di 73 minuti inscena un racconto sottilmente autobiografico: il suo è un dolce teen movie parigino in odore di Rivette, in cui il teatro fa incontrare gli amanti e a sostanziare la relazione sarà proprio il palcoscenico. Suzanne inizia a truccarsi, diventa donna, legge Boris Vian: su tutto c’è la consapevolezza di una storia d’amore impossibile, segnata dalla differenza di età che produce un divario non colmabile. La giovanissima autrice conduce la storia con mano realistica, salvo poi spaccare la plausibilità con l’antinaturalismo delle parentesi danzate: quelle in cui gli amanti si avvicinano, in cui si ipotizza la possibilità di stare insieme attraverso il movimento dei corpi. Un film che non vuole dire, semplicemente è: “sedici primavere” ovvero il primo amore, ovvero il passaggio dall’adolescenza alla maturità. E un ottimo punto di partenza per il percorso della regista.
SOUL di Pete Docter e Kemp Powers
Il pianista fallito Joe Gardner sta per realizzare il suo sogno, suonare con una star in una grande serata, ma il giorno stesso ha un grave incidente e va in coma. Finirà nell’Oltremondo (”The Great Beyond“) e dovrà fare da mentore a un’anima difficile, che non riesce ad incarnarsi perché non trova la sua ”scintilla”. Soul è l’anima ma anche la musica black degli anni Sessanta, quella di Aretha Franklin, citata non a caso (guardate il personaggio di Dorothea Williams). La Pixar apre la Festa di Roma con una prova visivamente sontuosa: Pete Docter e Kemp Powers, se riprendono i motivi di Inside Out e tendono a ripetersi, ne estendono qui il concetto dalle emozioni alla formazione della personalità, ai tratti che ci distinguono, possibilmente perfino più ostici. Ne risulta un racconto indiavolato ed esilarante – nella sezione più spassosa Joe si incarna in un gattone – ma anche ”struggente”, di quella sottile malinconia a cui la casa di produzione ci ha abituato. Ha un messaggio morale ed edificante (alla fine bisogna godersi la vita) ma soprattutto, come sempre, è un tour de force nell’immagine: la ricostruzione delle strade vere di New York è quasi fotografica, le figure nell’aldilà sembrano disegnate da Paul Klee e, a proposito di Disney, l’astrazione ”dopo la vita” sfiora le vette di Fantasia. Che la storia rimescoli le stesse carte si perdona volentieri. La visione in sala conferma la reazione alla distribuzione direttamente in streaming su Disney+: un peccato.
STARDUST di Gabriel Range
Gabriel Range inscena David Jones, alias Bowie, nel biennio 1970-71: dopo Space Oddity David è in mezzo al guado, può diventare una star oppure un musicista da bar. Non trova il suo posto nell’industria discografica. Teme di diventare come il fratello, folle e internato. «Se non puoi essere te stesso, allora diventa qualcun altro», gli dice il manager/mentore, il fondamentale Rob Oberman (un grande Marc Maron). È la sofferta genesi di Ziggy Stardust, che esploderà nell’album The Man Who Sold the World. C’è un’idea portante alla base di Stardust: che la figura dell’artista sia questione di costruzione, letteralmente a tavolino, quindi d’immagine, quella immagine giusta che bisogna trovare per sfondare un mercato già saturo e finalmente emergere. Uno sguardo col senno di poi, molto contemporaneo, postmoderno, che fa di Bowie una creatura pirandelliana che è ”come tu la vuoi”, decretando che ogni stella è prima di tutto – soprattutto? – l’immagine che di sé trasmette. Se Bowie appare in declino, l’alieno efebico conquista il mondo. È anche la parte migliore del film, che per il resto si dilunga in una ”origin story” di prammatica, essenzialmente un buddy movie tra Bowie e Oberman che non trova la scintilla, viaggiando tra bizzarrie artistiche (la droga e le riviste musicali) e veri e propri scivoloni (le apparizioni del fratello pazzo). Forse serviva un altro regista. Ottima prova di Johnny Flynn, anche musicale. Come per Velvet Goldmine, non c’è una nota del Duca Bianco. Il film su Bowie era una missione quasi impossibile: è riuscita a metà oppure è una parziale delusione, a scelta. Così è: «Planet Earth is blue and there’s nothing I can do».
TIME di Garrett Bradley
Vent’anni fa un uomo ha eseguito una rapina. Per questo è stato condannato a sessant’anni di reclusione. Quest’uomo è nero. Oggi la moglie, Sibil Fox Richardson, sta aspettando una chiamata dal giudice della Louisiana, per sapere se avrà la libertà condizionata. Il documentario racconta non solo la sua storia, ma si “estende” alla lotta per i diritti della comunità black, in particolare al movimento contro le pene severissime, non commisurate ai reati, inflitte in un passato razzista (più di oggi), che si riflettono nel presente. Ma il film di Bradley si chiama Time: il suo centro è proprio il tempo, quello ingiustamente passato dietro le sbarre. Perché l’atto di razzismo più crudele è la sottrazione del tempo della vita, dello spazio strappato ai propri cari. Ma c’è anche un altro tipo di tempo: quello che Sibil trascorre nel corso di 81 minuti, aspettando la risposta che sarà decisiva per la vita del marito Robert e dunque per la sua. Time prende il racconto di Se la strada potesse parlare di Barry Jenkins e lo trascina sul terreno della storia vera, seppur incredibile. Il bianco e nero consegna la stasi cronologica e incide un contemporaneo “senza colore”, in cui c’è ancora tanto da fare. È anche l’ennesimo doc sulla battaglia incerta della comunità nera americana, che suona note retoriche per lanciare il suo sacrosanto messaggio.
TRUE MOTHERS di Naomi Kawase
Spiace constatare la parabola discendente di una regista, Naomi Kawase, già maestra del cinema giapponese, che solo nel 2014 girava lo splendido Still the Water. In True Mothers, invece, la delicatezza e il grande spessore della cineasta emergono solo a tratti: per esempio nell’affresco di una comunità di ragazze incinte che vivono tutte insieme, pronte a partorire solo per dare in affidamento i loro bambini. Oppure nella festa di compleanno di una ventenne che si commuove perché non aveva mai avuto una torta prima d’ora. Ma sono momenti. Il film è troppo lungo, sviluppa il tema della maternità e lo incarta in una serie di questioni ormai di maniera (chi è una vera madre? Quella di sangue o di fatto?), mentre Kawase gira riprese di raccordo col pilota automatico, inquadrando – per l’ennesima volta – le onde del mare e le luci della città. La storia ci scorre davanti senza brividi. Peccato: la struttura cronologica in teoria era acuta, lasciandosi intravedere per intero solo quando si forma il disegno complessivo. Al netto di pochi istanti, il tocco magico della regista sembra evaporato, in attesa di prove migliori.