Il lavoro nobilita il cinema
Il cinema non è solo “la morte al lavoro”, come diceva l’abbondantemente citato Jean Cocteau. Il cinema è anche la messa in scena della vita al lavoro, di come l’uomo costruisca la propria vita intorno a esso: in tempi di crisi economica permanente, di precariato strutturale, la settima arte indaga questo aspetto come forse mai prima d’ora e il Working Title Film Festival, giunto alla 5^ edizione, si propone di sintetizzare queste indagini.
Di casa solitamente a Vicenza, il festival quest’anno si è svolto con un’edizione online che ha raccolto quasi 60 film tra lunghi, corti e film di durata e formato misti, ondeggianti tra il documentario come forma prevalente di linguaggio e la sperimentazione cinematografica. Essendo questi degli appunti, il modo più semplice per fare una carrellata è partire dai vincitori per provare a dare un quadro del festival. Partendo per esempio dal vincitore del concorso lunghi, che inquadra un lavoro raramente visto davvero come un lavoro, e raccontando un personaggio che di fatto questo lavoro non lo fa nel modo tradizionale:
En busca del Óscar di Octavio Guerra Quevedo, che ritrae il presidente della Federazione Spagnola dei Critici Cinematografici Óscar Peyrou, il quale teorizza che per recensire approfonditamente un film non serva guardarlo. Infatti, lui non li guarda, si limita ad esaminarne la locandina, come fa a inizio film con un quadro: secondo Peyrou vedere un film senza sonnecchiare fa entrare troppo in contatto col film, fa affezionare il critico, gli fa perdere distacco.
Una provocazione che però non è il fine del film, ma il punto di partenza: da qui Quevedo, anziché analizzare il sistema della critica e le sue possibilità e contraddizioni, comincia a svelare poco a poco la vita del critico, il suo passato e il suo presente. Una scelta umana – seppure lo stile sia freddo e distaccato appunto – che privilegia l’uomo sul professionista; una scelta fatta anche da Takashi Nishihara con Sisterhood (menzione speciale tra i lunghi), che racconta di un documentario sul femminismo dal punto di vista del suo regista, andando a cercare il senso biografico dentro le scelte stilistiche, mixando bianco e nero estetizzante, svolte romanzesche, spontaneità.
Ma il festival ha premiato o menzionato anche film che raccontano i mestieri, il lato più duro e faticoso del concetto di lavoro: Malacqua di Giuseppe Crudele (menzione tra i lunghi) racconta un pescatore che vive in collina e deve affrontare un certo numero di ostacoli per lavorare; Of Not Such Great Importance di Benjamin Deboosere (miglior corto) parla dell’incontro tra un attacchino immigrato e un vagabondo a Berlino; For Your Sake di Ronja Hemm (miglior corto di lunga durata) descrive i sacrifici di due ragazze nepalesi in procinto di lasciare il paese per studiare; Waiting Working Hours (vincitore Extraworks) di Ben De Raes guarda ai lavoratori giornalieri che aspettano che un camion passi a prenderli, per farli lavorare in un cantiere attraverso Google Street View. Gli altri menzionati sono Var-hami di Ilaria Pezone (Extraworks), Cum înalți un zmeu? di Gàbor Lorànd (Corti+), Lugar algum di Gabriel Amaral (Corti+), Ashmina di Dekel Berenson (Corti).
L’edizione 2020 del festival, che con la fruizione online può allargarsi al mondo senza pregiudicare troppo la forza di opere che spesso sfuggono alle definizioni canoniche di cinema e film, mostra la capacità di vedere il lavoro oltre gli stereotipi della produzione comune e industriale. Il lavoro non è solo sangue e sudore, non è solo sopravvivenza e produzione. È un modo, anche, per guardare l’arte, per creare, per vivere. E per lottare, soprattutto.