Feelings
Senza un’edizione del festival di Cannes, sembrava quasi d’obbligo assegnare alla Mostra di Venezia 2020 la funzione di fare da termometro per lo stato di salute della settima arte nel mondo. Ciononostante, a causa della difficoltà personale, negli ultimi anni, nel provare una commozione, anche solo di natura estetica, davanti al grande schermo, chi scrive non si è recato al Lido con l’aspettativa speranzosa di subire alcun contagio emotivo da parte dei film più “febbrili”. Quelli che si fanno espressione di un’irrequietezza insopprimibile, di una visione dell’esistenza magari malinconica ma vitalistica e che, quindi, non reprimono la forza dei sentimenti, come invece capita spesso a molte opere “arthouse”, giochi mentali nella migliore delle ipotesi di una certa raffinatezza, dedicati ai cinefili più cervellotici, o semplicemente a chi predilige un cinema “di pensiero”, più esplicitamente teorico e razionale.
Di film appartenenti a quest’ultima categoria se ne son visti anche in questo festival, a dire il vero: si pensi al metacinematografico Careless Crime di Shahram Mokri. Oppure al non imprescindibile Genus Pan, opera minore di un maestro come Lav Diaz, anche lui cascato in parte nella trappola di un cinema meramente narratologico, e stavolta, perdipiù, sostanzialmente freddo, o meglio volutamente raffreddato nello stile, poco convincente nella scrittura dei personaggi e nel generare/rinnovare l’intero immaginario della sua nazione.
Eppure, come dovrebbe imparare il pur abilissimo Michel Franco di Nuevo orden, macchina da guerra del ritmo che meritava finalità migliori, il nichilismo assoluto e l’assenza di ogni speranza non sono posizioni ideologiche particolarmente utili, né fruttuose. Vediamo, allora, quali sono state le esperienze più coinvolgenti di questa mostra, inutile sottolinearlo, da un punto di vista squisitamente soggettivo. L’oggetto filmico che svetta sugli altri, senza dubbio, è lo stupefacente Hopper/Welles, per il quale si rimanda qui. Un gradino più sotto, nella scala dell’intensità dell’immagine, poniamo tre film: City Hall dell’immarcescibile Frederick Wiseman, l’ossessivo The Wasteland dell’iraniano Ahmad Bahrami e lo sconvolgente In Between Dying dell’azero Hilal Baydarov. Su Wiseman è già stato detto tutto. I suoi film sono tessere di un mosaico sterminato, di un progetto cinematografico di proporzioni epiche, tuttavia, anche presi singolarmente, queste opere uniche conservano un valore etico ed estetico altissimo, ed è così anche per City Hall, il miglior documentario del festival, seguito a ruota da Guerra e pace di D’Anolfi & Parenti. Non si può dire che The Wasteland sia un film particolarmente originale, ma ce ne fossero di manieristi come Bahrami! Nel suo film ritroviamo un mirabile equilibrio interno di scene, azioni, gesti ripetuti, un gusto ormai perduto delle carrellate e delle panoramiche, una maestria nei pianisequenza degna del miglior Béla Tarr. Per quanto riguarda In Between Dying, è la dimostrazione di quanto sia cosa seria, da affidare solo chi è dotato di uno spontaneo senso del sacro e di una sincera spiritualità, la rappresentazione della violenza, quando non è soggetta alle sacrosante e stilizzate libertà di certi film di genere (tra i più interessanti dei quali citiamo almeno lo spassoso Samp di Rezza & Mastrella, il dissacrante Saint-Narcisse di Bruce LaBruce o, per contrasto, un film di spionaggio che fa consapevolmente la scelta opposta, quella di un impeccabile e misurato neoclassicismo, Wife of a Spy di Kiyoshi Kurosawa). Al rigore tarkovskiano delle inquadrature, di rara bellezza, Baydarov affianca una sorprendente capacità di gestire con precisione cronometrica i tempi del racconto e i cambi di tono, dai momenti più onirici, quasi psichedelici, in cui l’occhio sembra perdersi e annebbiarsi, fino alle situazioni più ordinarie e quotidiane.
Per compensare alla segnalazione di questi film “di regia”, molto controllati nella messa in scena ma tutt’altro che gelidi, e per ricordare, invece, quanto sia sempre sottovalutata e poco studiata l’importanza degli attori e del loro volto, quando si fa paesaggio, nel costruire la struttura di un film e nel riempire di vita i fotogrammi, ci limitiamo solamente a menzionare Nomadland di Chloé Zhao. Un raro esempio di film statunitense contemporaneo con ambizioni mainstream che si tiene lontano dall’ironia ludica postmoderna e che, per essere apprezzato, richiede un’adesione totale alle sorti dei suoi protagonisti da parte degli spettatori, rischiando perciò di perderne una larga fetta, quella di chi, legittimamente, si rifiuta di sottoporsi allo sforzo di empatia richiesto, o fugge a gambe levate al minimo sospetto di naïveté.