Ritrovarsi
Nell’inedita cornice temporale e, almeno fino ad un certo punto, climatica degli ultimi scampoli dell’estate, la 34ª edizione del Cinema Ritrovato ha in qualche modo dato un doppio senso al proprio nome; c’è stato il consueto “ritrovamento” di opere che hanno permesso ad ogni spettatore e appassionato di comporre nuovi tasselli della propria personale e affettiva storia del cinema. E c’è stato, forse anche un po’ retoricamente – ma per una volta ci può stare –, l’aver ritrovato un tipo di evento e di atmosfera, quella dei festival cinematografici, che fino a pochi mesi fa pareva essere svanita.
Retorica e contingenze globali a parte, dicevamo che l’offerta della manifestazione è stata come al solito vasta e variegata. Inevitabile, quindi, che questo articolo offra, in maniera assolutamente personale, suggestioni e innamoramenti, legati anche al fatto che chi scrive si è abbandonato a questa varietà vagando da una sezione all’altra.
Partiamo dalla sezione Cinemalibero, che scava negli anfratti più nascosti soprattutto delle cinematografie meno conosciute e celebrate. Ha spiccato La morte di un burocrate (1966) del cubano Tomás Gutiérrez Alea, dove Jacques Tati e Stanlio&Ollio convivono con Luis Buñuel e Ingmar Bergman. Satira sulla burocrazia e sul controllo, è una spietata e ridanciana danza macabra, che descrive un girone dell’inferno crudele, paradossale e assurdo.
Riapparso quasi dal nulla dopo cinquant’anni dalla sua realizzazione, l’iraniano Chess of the wind (1976) di Mohammad Reza Aslani è un elegantissimo, straordinario e claustrofobico melodramma dalle venature ossessive e horror. Una sorta – per render l’idea – di tardo Visconti iraniano, da cui, anche in questo caso, emergono decisive questioni storiche e culturali (il ruolo della donna e i cambiamenti dopo la rivoluzione degli anni ’20) perfettamente filtrate dalla rielaborazione personale dell’estetica e del genere di riferimento.
Protagonista come sempre è stato il cinema americano più o meno classico: la retrospettiva dedicata a Henry Fonda ha permesso di puntare nuove lenti su un interprete istrionico e versatile, nella memoria storica forse un po’ imprigionato nel ruolo dello statunitense nostalgico e conservatore. Così, nella screwball comedy L’uomo questo dominatore (1942) di Elliott Nugent, ancor meglio che nel più celebre Lady Eva di Sturges, Fonda mostra spiccate doti brillanti, contribuendo col suo personaggio alla galleria di simpatici maschi in crisi e in balia delle donne, tipica del filone.
La profondità delle sue interpretazioni risalta anche nel tetro film sull’incubo di una guerra nucleare A prova di errore (1964) di Sidney Lumet. Lumet inquadra il volto di Fonda, nel ruolo del presidente degli Stati Uniti d’America alle prese con una scelta delicata e clamorosa, quasi come Dreyer inquadrava il volto della sua Giovanna D’Arco, esaltandone la profondità espressiva, dettaglio decisivo di uno straordinario film paranoico e apocalittico.
Lo scavo nella storia del cinema a stelle e strisce ha riportato alla luce anche il noir dalle evidenti venature politiche Le forze del male (1948) di Abraham Polonsky e la commedia amara Claudine (1974) di John Berry. Due film che in qualche modo piegano il genere di riferimento ad uno sguardo politico e sociale preciso e duro: nel primo caso, ricognizione sull’essenza del capitalismo statunitense, che non sfigurerebbe ancora oggi come film sulla finanza aggressiva o sulla mafia dai colletti bianchi, non sorprende che Polonsky sia entrato nella lista nera e non abbia fatto film per circa vent’anni. Nel secondo, dall’atmosfera di fondo quasi da sitcom e dall’ottica privata emerge il drammatico contesto delle comunità afroamericane proletarie e urbane, che influisce fin sulle scelte più intime.