Fenomenologia della violenza
Due brutali omicidi di fila. Un avvocato, mentre rincasa di sera in città, e un signore, in campagna, mentre sta pescando. Con queste immagini di violenza, montate, con un ritmo compulsivo, su rotative di giornali, inizia The Last Witness (Choehu-ui jeungin), film del 1980 di Lee Doo-yong. Una violenza che introietta quella della società di quell’anno, un punto di svolta della storia sudcoreana: si era appena concluso il dominio ventennale autoritario di Park Chung-hee ed era fiorita una primavera di Seul, le cui speranze si infransero subito, nella repressione violenta delle proteste studentesche di Gwangju.
Torniamo ai due omicidi iniziali, accomunati dalla stessa esclamazione delle vittime, di fronte al loro carnefice: «Chi sei?». Le due scene sono girate in modo diverso. La seconda, l’omicidio di Yang Dal-su, è la soggettiva, in macchina a mano claudicante, sulla riva del fiume, dell’assassino, il cui punto di vista combacia, così, con quello dello spettatore. Evidente il coinvolgimento morale della società sudcoreana, che fa il paio con una battuta successiva, che allude alle responsabilità collettive del popolo.
Dall’omicidio di Yang Dal-su parte la narrazione dell’indagine, condotta dal detective Oh. Solo più avanti scopriremo il collegamento con l’omicidio dell’avvocato. Un’indagine contorta, non priva di colpi di scena, tra inganni e cospirazioni, che affonda le sue radici nel passato, permettendo a Lee Doo-yong di scandagliare la storia del paese, risalendo alla guerra di Corea, origine dei traumi del paese, dei suoi conflitti mai sopiti. La ricerca di Oh lo porta anche a esplorare il paese in lungo e in largo, mettendolo in contatto con tante realtà sociali e geografiche diverse. Grottesca, in questo senso, la situazione in cui Oh gira i penitenziari di tutta la Sud Corea, alla ricerca di Hwang Ba-wu, che ha scontato vent’anni di pena, per un crimine in realtà non commesso. Dopo aver seguito tutti i suoi trasferimenti, il detective arriva nell’ultimo carcere, dove scopre che l’uomo è stato alla fine scarcerato. Il vecchio Hwang Ba-wu rappresenta ora la buona coscienza del popolo sudcoreano, come dice lo stesso direttore del carcere, un popolo ostaggio, in un paese diventato una grande prigione, durante il ventennio di Park Chung-hee, con la legge marziale permanente.
L’omicidio di Han Dong-ju si scoprirà essere stato un falso omicidio, con lo scopo di impossessarsi del tesoro. Ancora Lee Doo-yong esprime l’estrema precarietà della situazione politica del momento, dove l’assassinio di Park Chung-hee aveva posto fine alla satrapia, ma il futuro rimaneva incerto. Le nuove generazioni, nel film, sono rappresentate da Tae-young, il colpevole, un ragazzo disadattato che porta addosso i traumi del passato. E nel finale si compie il dramma. I personaggi positivi commetteranno un suicidio, con una voce off che, nello stile di un canto pansori, la tradizionale rappresentazione teatrale coreana, restituisce una dimensione epica, classica, eterna, come la tragedia greca.
The Last Witness [Choehu-ui jeungin, Corea del Sud 1980] REGIA Lee Doo-yong.
CAST Ha Myeong-jung, Jeong Yun-hie, Choi Bool-am, Hyeon Kil-su, Han Hye-suk.
SCENEGGIATURA Kim Sang-jung. FOTOGRAFIA Jeon Il-seong. MUSICHE Kim Hie-gab.
Drammatico/Noir, durata 158 minuti.