Piccolo regno malinconico
Rivedendo The Irishman, mi è difficile non pensare a quanto si discosti dalle aspettative di quel che s’intende per un gangster movie di Scorsese. Siamo lontani dal ritmo vorticoso dettato dalle carrellate che avvolgevano Quei bravi ragazzi e Casinò. Non c’è la violenza barocca di The Departed.
Al contrario, c’è una ricerca al minimale, giustificata da un umanesimo di fondo, che avvicina The Irishman più a Silence, non esattamente un gangsters movie. The Irishman ha origine dalla nostalgia, non affettuosa, ma del lento invecchiamento e disfacimento di un mondo.
È lontana la cruda irriverenza giovanile di Mean Streets, Scorsese realizza volutamente una pellicola senile, lenta. The Irishman si riempie dei vuoti delle pellicole precedenti, un lungo e malinconico assolo di sax e brani anni Cinquanta, tutto quel che veniva eluso viene diluito nella storia di una vita dedicata alla mafia. Un racconto che abbraccia quarant’anni di vita pubblica e vita privata, quella nascosta tra gli accordi con il sindacato di Jimmy Hoffa e la fedeltà cieca all’organizzazione, rappresentata dalla lunga amicizia con il boss Russell Bufalino. In questo racconto, di grandi cambiamenti sociali e politici, si muove il silenzioso e instancabile Frank Sheeran. Un lavoratore, quasi un aziendalista della criminalità, non ossessionato dal potere e dai soldi, pronto a sacrificare dolorosamente i rapporti, in primis quello con la figlia. È l’opposto di Henry Hill, Ray Liotta in Quei bravi ragazzi: Henry è come un sopravvissuto a quella vita, se ne è drogato finché ha potuto, attratto dai suoi abbagli fino a rinnegarla, una volta che le cose sono crollate; Frank si è adattato alla “società”, accettandone i dettami, e l’ha difesa, con il suo silenzio, fino all’invecchiamento.
Ma anche dopo i titoli di coda, un quesito rimane, è davvero quello che ci si sarebbe aspettati da The Irishman? È davvero un gangster movie che racchiude in sé tutte le tematiche, le situazioni, i personaggi narrati da Scorsese? No, se lo si guarda aspettandosi la cifra stilistica che Scorsese regista aveva scelto in precedenza, ma se pensiamo a Scorsese cinefilo, allora ci troviamo di fronte al suo Gattopardo. Un film dal sapore decadentista, in cui lo scontro non è tra il vecchio e il nuovo, ma tra quello che è da sempre stato l’occhio su quel mondo e quello che Scorsese ha invece scelto, asciutto e poco malinconico. Quasi come un documentarista che filma sotterraneamente, più che i processi mafiosi dietro a grandi affari politici-economici, il lento asservimento di fedeltà e fiducia che si cementifica in Frank. È forse questo il grande conflitto, un po’ metacinematografico, indagato da Scorsese, uno sguardo distaccato e asciutto, ma sempre pregno del fascino per quel piccolo regno malinconico, che non è solo stato reale, ma è diventato icona del cinema.
The Irishman [id., USA, 2019], REGIA Martin Scorsese. CAST Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel. SCENEGGIATURA Steven Zaillian. FOTOGRAFIA Rodrigo Prieto. MUSICHE Robbie Robertson. Drammatico, durata 209 minuti.