Storie, segreti e crimini sepolti
Una delle cose più evidenti, se si osserva in modo molto rapido il panorama recente – e per recente intendo, più o meno, quello degli ultimi vent’anni – del cinema horror sudcoreano, è, senza dubbio, il filo rosso che lo lega alle sue origini. Mi spiego meglio: se ci mettiamo alla ricerca di quelle che sono le caratteristiche dei film di questo genere, ci accorgiamo immediatamente che è facile riconoscerne parecchie simili a quelle che avremmo riconosciuto nello stesso filone sessant’anni fa.
È come se l’horror sudcoreano avesse una necessità basilare di cambiare raramente la forma dei suoi riferimenti, deambulando tra quelli che sono tre nodi effettivamente centrali: la presenza assidua di tematiche melodrammatiche, l’attenzione, spesso ossessiva, alle storture sociali, prodotte dalle dinamiche familiari, e la necessità, quasi senza compromessi, di inserire sempre una storia di fantasmi. Queste sono, infatti, le fondamenta su cui si basa il genere, che plasma, appunto, le sue prerogative durante l’epoca d’oro – e cioè gli anni Sessanta – del cinema coreano. Film come Salinma (A Devilish Homicide, 1965) di Lee Yong-min, o Wolhaui gongdongmyoji (The Public Cemetery Under the Moon, 1967) di Kwon Cheol-hwi, sono ricolmi di situazioni melodrammatiche, dove i wonhon – gli spettri, dalle sembianze femminili, che cercano vendetta, dopo una morte violenta, solitamente avvenuta in seguito alla scoperta di un tradimento – la fanno da padrone. Ma non sono, a dirla tutta, le uniche forme ricorrenti: in un film come Cheonnyeonho (Thousand Years Old Fox, 1969) di Shin Sang-ok si trovano altre presenze, che torneranno più avanti nel tempo, come quella del gumiho, una specie di volpe a nove code, che può trasformarsi, a suo piacimento, in una giovane donna che seduce per uccidere. Il cinema horror sudcoreano contemporaneo, insomma, è come se tendesse a reinterpretare, spesso e volentieri, con le dovute e necessarie variazioni, i modelli presenti in queste pellicole fondative, mostrando un interesse particolarmente evidente per quelli che sono, fondamentalmente, i miti e le leggende principali del folclore nazionale. Ma è effettivamente sempre e solo questo lo schema? Non completamente. Osservando bene la storia di questo genere, notiamo dei punti di rottura, che funzionano come momenti di riflessione sulle potenzialità dell’horror e sulla possibilità di poter dare a quegli schemi delle vie d’uscita, utili a rinnovare i contenuti, o a implementare la contaminazione tra le varie e differenti forme. Uno di questi punti di svolta – fondamentale per i film più recenti – si ha nel 1998, con l’uscita di Yeogogoedam (Whispering Corridors, 1998) di Park Ki-hyung. È un film che ha una sua originalità e che ottiene un notevole successo, a tal punto da creare un sottogenere tutto suo.
È essenzialmente una storia che ricalca lo schema delle vicende a cui sono legati i wonhon, effettuando, però, una torsione importante: sposta l’asse dal contesto famigliare a quello scolastico, ambientando, infatti, le sue vicende all’interno di una scuola superiore femminile. Non è uno spostamento scontato, in quanto tutte le dinamiche legate a questioni di parentela traslano su quelle legate all’amicizia. I fantasmi non si vendicano più di mariti o concubine, bensì delle proprie ex compagne di classe. Ma Yeogogoedam è un film importante anche perché sancisce il punto di partenza del “new korean horror”: esso, infatti, contiene tutta una serie di temi, questioni e specifiche, sia espressive sia narrative, che saranno principali nella maggior parte dei film prodotti da lì in poi. Come scrive infatti Daniel Martin in un suo saggio sull’argomento [Daniel Martin, South Korean Horror Cinema in Harry M. Benshoff (a cura di), A Companion to the Horror Film, Wiley & Sons, Chichester 2017], quegli elementi si possono essenzialmente racchiudere in alcune “etichette”:
– Vendetta. La maggior parte dei film horror sudcoreani, classici e moderni, si strutturano attorno a una vendetta. Il wonhon, spesso, è in cerca di giustizia, che ottiene attraverso azioni vendicative. Yeogogoedam mette in scena questo, attraverso gli atti violenti perpetrati nei confronti degli insegnanti della scuola, dopo averne mostrato i loro abusi.
– Flashback. Il cinema horror sudcoreano contemporaneo riguarda spesso fatti che si radicano nel passato: storie, segreti e crimini sepolti sono riesumati e vissuti nuovamente. Ci sono veramente pochissimi film – per non dire nessuno – usciti dal 2000 in poi a non avere tra le proprie sequenze almeno una che utilizzi un flashback. Una serie di flashback notevolmente strutturati – solo per citare uno dei migliori esempi – portano alla risoluzione finale in Phone (2002) di Ahn Byung-ki.
– Emarginati. Il succitato Yeogogoedam e molti dei film successivi, specialmente quelli che si focalizzano sulla vita degli adolescenti, hanno spesso personaggi che rappresentano quello che in coreano viene definito “wanggda”: l’emarginato. Ed è spesso una figura femminile che viene vittimizzata, a causa della sua appartenenza a una specifica classe sociale o a una particolare situazione famigliare.
– Religione e superstizione. Uno degli elementi ricorrenti in Yeogogoedam è quello dello sciamanesimo. Lo sciamanesimo è una delle tradizioni religiose più antiche della Corea, ma è andato pian piano sparendo, con l’avvento del ventesimo secolo. Nell’horror contemporaneo sudcoreano è spesso metafora dell’incapacità di adattarsi completamente alla modernità e alle influenze religiose e di costume occidentali.
– Melodramma. È indubbio che, come abbiamo già accennato, l’horror contemporaneo sudcoreano abbia forti radici nel melodramma. I fantasmi non spaventano solamente, ma cercano anche di suscitare comprensione, da parte dello spettatore, nei loro confronti. Spesso hanno storie tristissime alle spalle: in Yeogogoedam, infatti, non c’è trionfo sul male, ma soltanto un finale che spinge l’elemento drammatico sopra ogni altra questione. Questo elemento drammatico è sempre presente nell’horror sudcoreano ed è uno dei suoi marchi di fabbrica.
Sono queste in definitiva le principali caratteristiche dell’horror contemporaneo sudcoreano. La maggior parte dei film usciti negli ultimi vent’anni ha, dunque, tra le sue peculiarità, molti degli elementi sopra elencati. Se, però, non possiamo dire che tutti le possiedano sempre tutte quante è perché alcune opere si distinguono proprio in quanto riescono a fare leva su quelle specificità, variando, così, il tema e rendendosi, in questo modo, film che superano i confini imposti da quella più o meno rigida struttura, di cui ho parlato poco fa. Tra i più eclatanti, ce ne sono una manciata che vale la pena di elencare. Ad esempio la doppietta di Kim Jee-woon Two Sisters (2003) e I Saw the Devil (2010): il primo, in particolare, per come gioca astutamente con la figura del wonhon, ingannando spesso lo spettatore, attraverso una messa in scena che suggerisce che il fantasma potrebbe essere solo una proiezione provocata dai sensi di colpa, e nient’altro; il secondo perché porta il thriller a livelli parossistici, miscelando sentimentalismi, eccessi gore e psicologismi grotteschi e fuori luogo, quasi con intenti satirici e, per questo, spiazzanti. Poi, il monster movie The Host (2006) di Bong Joon-ho, dove la minaccia della bestia sovrannaturale – si guardi a Yongary del 1967 di Kim Ki-duk – si frappone a uno sguardo che tende a focalizzarsi sulla struttura socialmente sguaiata di una famiglia eccentrica, le cui storture saranno la chiave per sconfiggere il mostro. Infine, altre due opere, che spingono verso territori raramente calcati, come Train to Busan (2016) di Yeon Sang-ho, mai come adesso così attuale, dove la dimensione politica degli zombie si unisce a quella morale e romantica, e il capolavoro assoluto The Wailing (2016) di Na Hong-jin, dove iperrealismo – il rito sciamanico, costruito con un’intensità inaudita e una riflessione, attenta e puntuale, sugli elementi orrorifici del folclore -, ironie grottesche – la maggior parte delle situazioni che hanno a che fare con il poliziotto Jong-goo – e incubi inaspettati si saldano perfettamente, creando un grande affresco dei luoghi più rurali della Corea del Sud contemporanea.
Insomma, l’horror sudcoreano è attualmente un territorio in cui si sperimenta con grande efficacia, sempre con un occhio alla tradizione e uno alle possibilità infinite che il genere consente, dimostrazione lampante che non è mai possibile guardare al futuro senza aver prima fatto i conti con il proprio passato.