Di umani e robot
Cosa succede quando una ballerina professionista scopre la robotica? Nasce una cosa come le performance di Geumhyung Jeong, giovane artista sudcoreana che, se recitazione e danza contemporanea le ha studiate all’università – una presso la Hoseo University, e l’altra alla Korean National University of Arts and Film Animation di Seul -, nell’ambito dei componenti elettronici è totalmente autodidatta e i suoi robot se li costruisce da sola, comprando i pezzi su internet.
Dopo aver collezionato cavi, motori, batterie, vecchi joystick e pezzi di manichini per simulazione medica, l’artista li assembla in prototipi claudicanti, vagamente antropomorfi, con cui cerca di instaurare inedite relazioni. Anche Jeong, proprio come un’Intelligenza Artificiale, impara facendo. Negli anni il fai-da-te ha assunto un ruolo sempre più preponderante nella sua pratica e non è un caso che si intitoli proprio Upgrade in progress la mostra ora in corso presso una delle sedi della Fondazione Modena Arti Visive, la Palazzina dei Giardini. Questa esposizione, la prima personale di Jeong in Italia, è concepita come un’evoluzione della precedente Homemade RC Toy, che si è svolta alla Kunsthalle Basel nel 2019, e che prevedeva una serie di performance durante le quali l’artista si contorceva nella hall del museo, in mezzo ad arti protesici, montati su ruote e paccottiglia meccanizzata a controllo remoto. A Modena, Jeong presenta i suoi ultimi progressi in materia di robotica DIY: congegni umanoidi, all’apparenza simili a quelli precedenti, ma capaci di eseguire una più ampia gamma di movimenti e con maggior flessibilità. I pezzi sono esposti, come sculture, su una serie di tavoli da lavoro, trasformando le sale della Palazzina in un posto molto simile al suo laboratorio.
Nello stesso spazio troviamo anche dei video che mostrano il processo di assemblaggio di questi robot amatoriali, come fosse un’antica pratica artigianale. Come accade fin dalla mostra Private Collection: Unperformed Objects del 2016, l’artista ama presentare i suoi oggetti di scena – tapis roulant, aspirapolveri, sex toys, apparecchi elettronici e una collezione di manichini da far invidia ad Hans Bellmer – lasciando che dispieghino il loro potenziale performativo, ancor prima che entri in gioco il suo corpo ad animarli, ma mai nel modo che ci aspetteremmo. L’associazione tra la motilità umana e quella della macchina non è nuova nel mondo dell’arte, impossibile non citare ad esempio i tanzermensch (macchine per la danza) di Oskar Schlemmer, oppure le azioni meccatroniche di Marcel·lí Antúnez Roca, eppure qui non si tratta più di associare l’uno all’altro per assimilazione, né semplicemente di dare forma alle nostre fobie di controllo, ma di indagare l’interazione tra la motilità biologica e quella robotica, nel rispetto delle loro specificità. Con le sue coreografie Jeong non cerca di sostituire il non vivente al vivente, ma di creare una terra franca tra i due. Una cosa simile avviene anche nelle performance di Daito Manabe, dove i membri della compagnia di danza Elevenplay hanno imparato ad accordare i propri movimenti a quelli di uno sciame di droni, controllati da un software, ma senza mai raggiungere un livello così intimo di interazione. Assistere ad una performance di Geumhyung Jeong significa iniziare a guardare una cosa per poi ritrovarsi a vederne un’altra. Ad esempio, l’apparente sottomissione con cui l’artista si lascia perlustrare dal tubo di un’aspirapolvere in 7 ways – una delle performance che segnano l’ampliarsi della sua indagine dalla sfera di genere a quella del postumano – contraddice quello che sappiamo, cioè che è lei in realtà a comandare la macchina e non viceversa. Seguendo i suoi movimenti ipnotici, erotici anche ma mai fino al risvolto osceno del termine, lo spettatore approda in una dimensione in cui è impossibile distinguere la carne dal silicio, l’essere controllato da remoto e quello che agisce di sua volontà. Una dimensione in cui non c’è un elemento che ha preso il posto dell’altro, ma un’entità radicalmente nuova che si è generata dall’interazione tra i due. I movimenti dei robot sono scomposti, non direzionati, in parte volutamente: la loro goffaggine è necessaria alla performance perché ne mette in luce la fallibilità e quindi l’umanità. Di fronte a queste protesi vibranti, che arrancano con i cavi a vista, non possiamo che sentire un senso di pena, ma anche auspicabilmente la volontà di prendercene cura; in sostanza arriviamo a provare qualcosa di umano per un congegno che non lo è. Con le sue azioni Jeong non tira fuori il lato meccanico del corpo umano, preferisce far emergere l’umanità insita nella tecnologia. Ma queste macchine, come abbiamo visto, non sempre vengono messe in moto. Come spesso accade anche nella performance art, gli oggetti di scena vengono considerati anche per il loro valore scultoreo, esposti autonomamente come reliquie di azioni, ancora pulsanti di significante o come spunti per altre future. A Modena succede proprio questo: il Palazzo diventa uno stage disseminato di resti, immobili ma non muti, con cui possiamo già esercitarci ad empatizzare.