It’s Not Her Sin
La vita del regista e produttore Shin Sang-ok (1926-2006) già sarebbe stata rimarchevole, con la sua ascesa a figura chiave del cinema sudcoreano e poi la caduta per ragioni politiche, anche senza il suo episodio più romanzesco: il suo rapimento da parte dei nordcoreani.
Capo della Shin Films, che diventa la più grande compagnia della Corea del Sud, Shin è un produttore innovativo, guidato da una “ossessiva spinta a industrializzare e «razionalizzare» l’industria del cinema sudcoreano” (Steven Chung). Attento, cosmopolita, si tiene al corrente dei miglioramenti tecnici nell’industria internazionale. Il suo impero crolla quando entra in urto col dittatore Park Chung-hee, prima suo ammiratore, che nel 1975 gli toglie il permesso governativo di lavorare nel cinema. Mentre è in disgrazia, nel 1978 Shin viene rapito, a Hong Kong, su ordine del futuro dittatore cinefilo del Nord, Kim Jong-il, insoddisfatto della produzione del suo Paese. Kim lo costringe – dopo una lunga prigionia – a diventare il “movie mogul” nordcoreano, accanto alla moglie e interprete preferita Choi Eun-hee, anche lei rapita. I due realizzano vari film al Nord, prima di fuggire, approfittando di un viaggio a Vienna – vedi il bel documentario di Robert Cannan e Ross Adam The Lovers & the Despot. Ora, il rischio è che questa straordinaria avventura umana – sulla quale rimangono dei punti oscuri – offuschi la percezione del regista, non il migliore, ma certo fra i più rilevanti del cinema coreano.
Come regista, Shin è attivo in tutti i generi. Mélo d’ambiente borghese, forse il punto più alto della sua produzione, come i folgoranti A College Woman’s Confession e It’s Not Her Sin, oppure Mother and a Guest, il melodramma visto attraverso lo sguardo inconsapevole di una bambina. Film noir, come il capolavoro A Flower from Hell, ambientato fra prostitute e piccoli criminali, dove è palpabile l’influenza del neorealismo. Drammi proletari, come Rice, epos del lavoro di spirito collettivista, debitore del cinema sovietico – e viene da pensare che il ricordo di un film come questo abbia contribuito a ispirare a Kim Jong-il l’idea di costringere Shin a rinnovare il cinema nordcoreano – per non parlare di Evergreen Tree, ammirato anche dal dittatore del Sud Park Chung-hee, che è quasi realismo socialista. Commedie familiari, come A Romantic Papa. Film di guerra, come Red Scarf, un war movie d’aviazione, enfatico ma ben narrato, con belle riprese di guerra aerea.
E poi, molti film in costume. Storie di intrighi a corte – un vero macrogenere coreano -, come Prince Yonsan e il successivo Tyrant Yonsan, dove Shin tratta la storia del famoso tiranno, in una versione sontuosa, con approfondimento psicologico; lo interpreta il grande Shin Young-kyun, molto attivo nei film del regista, negli anni ’60. Fantasy, come Madam White Snake, che riprende con un pizzico di “tongue-in-cheek” la popolarissima leggenda del serpente bianco che si innamora di un uomo. Horror, come A Thousand Years Old Fox, dove la gumiho – volpe soprannaturale – porta lo scompiglio nel regno di Scilla. Opere di origine classica, come Seon Chun-hyang, da un celebre pansori – opera popolare -, dove Shin richiama tale origine in alcuni elementi, come la danza del boia; il suo film sulla fanciulla fedele Chun-hyang fu il primo film coreano a colori in cinemascope. Per inciso, la storia di Chun-hyang sembra deputata a segnare tutti i momenti di innovazione tecnica del cinema coreano. Bisogna aggiungere che non si può parlare di Shin Sang-ok senza menzionare l’attrice, collaboratrice e moglie Choi Eun-hee. Con lei, Shin vive un rapporto di autentica simbiosi artistica, stile – per fare nomi assai alti – Mizoguchi/Tanaka od Ozu/Hara. Popolarissima in Corea, nei film del marito, Choi traccia un grande ritratto della donna coreana, in mille intense interpretazioni; è contadina, insegnante di campagna, prostituta, signorina di buona famiglia, vedova di guerra, avvocato, aristocratica dell’epoca feudale, eroina leggendaria, serpente millenario sotto le spoglie di una donna… I suoi personaggi mettono sempre in luce il coraggio, ma soprattutto lo spirito di sacrificio: Choi trova la sua vena principale nella raffigurazione della sofferenza.
Shin Sang-ok è un grande narratore. Si possono menzionare per esempio la costruzione della tensione attraverso il montaggio in A Flower in Hell, o il gioco di campo e controcampo alla fine di It’s Not Her Sin, che rappresenta la chiave di lettura, il sigillo morale del film. Nel suo cinema, che si avvale di ottimi collaboratori, non solo l’inquadratura mostra un’elegante perizia compositiva – dove sovente la composizione in diagonale serve a collegare i piani, come nel finale di A Sister’s Garden -, ma è capace di concentrare il discorso in un’immagine pregnante. Un esempio: la rivista che nasconde il volto dell’amica lettrice di racconti gialli – e quindi suggeritrice dell’imbroglio del film -, sostituendolo con quello stampato in copertina, in A College Woman’s Confession. Shin mostra sempre dell’inventiva. I titoli di testa di Mother and a Guest scritti col gesso sui muri hanno una freschezza degna di Louis Malle! Perfino in una commedia senza troppe ambizioni – ma fu un successo -, come A Romantic Papa, la vivacità di Shin salta all’occhio, con l’inizio metanarrativo, coi personaggi che si presentano al pubblico, replicato da un passaggio metacinematografico a metà film, quando tutti i familiari immaginano – e noi vediamo – un ipotetico film, ciascuno secondo la propria psicologia.
Shin introduce anche un elemento di erotismo audace per l’epoca, stupefacente in A Flower in Hell, che Choi Eun-hee interpreta con “daring abandon” (Darcy Paquet), nel 1958, più esplicito nel raffinato dramma storico Eunuch, dieci anni più tardi. Perfino in Corea del Nord, Shin fa apparire sugli schermi del tetro “regno eremita” un primo, discreto bacio d’amore in Love, Love, My Love, una riscrittura musical della storia di Chun-hyang. Inoltre, come osserva Johannes Schönherr in North Korean Cinema: A History, in Corea del Nord l’amore si intendeva per il Grande Leader e la collettività, non fra due persone: “Love come parte di un titolo di film? Era inaudito”.
L’ultimo film di Shin in Corea del Nord prima della fuga, Pulgasari, è il primo kaiju eiga nordcoreano, con una sorta di Godzilla, che si schiera dalla parte dei contadini insorti. Cosa ancora più interessante, dopo la vittoria, Pulgasari diventa un pericolo per il popolo e la protagonista si sacrifica per distruggerlo. Bizzarro che il regime non si accorgesse delle possibili implicazioni.
Nel contesto del suo realismo psicologico, ritorna, nei film di Shin, quello che potremmo chiamare il fascino della strada. Ovvio citare l’inizio “neorealista” di A Flower in Hell, o inquadrature quasi documentaristiche di altri film drammatici; ma pure A Romantic Papa presenta un autentico rovesciamento, nell’ultima parte, quando il protagonista viene licenziato e lo nasconde alla famiglia: scene girate per strada subentrano con prepotenza a quelle girate in studio.
Non è sbagliato sostenere che se c’è un filo rosso che attraversa il cinema di Shin Sang-ok è un atteggiamento di simpatia e comprensione nei confronti della donna, costretta nelle repressioni dell’universo maschilista della Corea, tanto del presente quanto del passato (The Memorial Gate for Virtuous Women, Eunuch, Women of Yi-Dynasty). Certo, il melodramma è il genere della centralità femminile per eccellenza. Ma il discorso non vale solo per il melodramma. In filigrana, leggiamo un sentimento di comprensione anche per la “regina lasciva”, tirannica e disperata, del fantasy storico The Thousand Years Old Fox – e perfino per un personaggio estremo come l’implacabile Sonya, questa dark lady dei bassifondi, di A Flower in Hell, quando il suo grido finale «Lasciami vivere» comanda un imprevisto lampo di commozione. Un commovente afflato di solidarietà femminile conclude A College Woman’s Confession e It’s Not Her Sin – il cui titolo può esser preso a simbolo di tutto il cinema di Shin Sang-ok.