Donne, uomini e topi nel cinema di Kim Ki-young
“Mr. Monster”. È questo l’appellativo di Kim Ki-young, forse il regista più eccentrico e anti-convenzionale del cinema coreano. Autore eclettico e artista metodico, acuto osservatore e talento visionario, ha saputo stravolgere i canoni della cinematografia coeva, con un’originalità tematica e stilistica che ha attirato in egual misura l’attenzione degli ammiratori, come quella della censura. Nonostante le pressioni di quest’ultima, soprattutto durante gli anni della Quarta Repubblica di Corea, Kim Ki-young è riuscito a realizzare alcuni dei suoi film più importanti proprio nell’arco dei ’70.
Woman of Fire (1971) , The Insect Woman (1972), Ieho Island (1977) sono pellicole che mettono a nudo la società, attraverso i temi cari al regista: dalla pulsione erotica alle ossessioni della psiche, dalle relazioni uomo/donna alla violenza radicata nell’animo umano. La commistione sapiente dei generi e un’estetica della crudeltà poco incline ai compromessi hanno reso il suo stile controverso un esempio per molti registi a venire. Non è un caso che a riconoscerne l’influenza siano alcuni dei maggiori esponenti del cinema coreano contemporaneo, da Bong Joon-ho a Kim Ki-duk, fino allo stesso Park Chan-wook.
Ma alla base di un percorso artistico che, dal realismo dei primi documentari, si evolve in forme sempre più estreme ed espressioniste permane uno sguardo coerente e consapevole. Sarebbe, infatti, un errore pensare al cinema di Kim Ki-young in termini di progressiva astrazione o scollamento dal reale. Il legame con il tessuto sociale e le istanze che emergono dai suoi cambiamenti pervadono, anzi, ogni film del regista.
È il caso della nota “Trilogia della domestica” che, a partire da Hanyeo, abbraccia tre decenni di storia, riesaminando le dinamiche del rapporto tra maschile e femminile, alla luce del mutato contesto sociale. Filo conduttore tra il primo film e i successivi Hwanyeo e Hwanyeo ’82 è soprattutto la figura della donna, nella veste speculare della moglie pragmatica e dell’amante fatale. Entrambe costrette ai ruoli imposti dalla condizione economica e sociale, eppure determinate a ribaltarli con feroce determinazione, a fronte di un uomo sempre più imbelle e inadeguato.
Hanyeo, in particolare, contiene già i prodromi della poetica del regista e irrompe nel panorama cinematografico dell’epoca con uno stile inedito e perturbante. A partire da un fatto di cronaca, Kim Ki-young introduce il nucleo protagonista di tutta la trilogia: la coppia borghese, ossessionata dalla rispettabilità, e la giovane domestica, che ne farà crollare l’ipocrita facciata. Emblematico dell’insofferenza verso le maglie dell’apparenza sociale è il proliferare di sbarre e inferriate, che confinano i personaggi in gabbie claustrofobiche. Fin dall’incipit del film, la macchina da presa deve insinuarsi tra le grate di una finestra, per spiare il quadretto domestico della coppia, impegnata a deplorare l’adulterio di un uomo con la sua domestica. L’inquadratura si sposta, poi, sulle mani dei due figli, che giocano a ripiglino con lo spago, anticipando il gioco di intrecci e di scambi a venire. Un’allusione amplificata dallo stacco sulle operaie dell’azienda tessile, inquadrate attraverso la ruota di ferro di un telaio.
Più avanti, quando Dong-sik regala alla figlia un criceto in gabbia, che corre su una ruota simile, il messaggio diventa esplicito: «I criceti sono animali selvaggi, sono gli uomini a metterli in gabbia. La gente pensa che la vita in gabbia possa immobilizzarli ma loro si esercitano per mantenere le gambe forti». È la lezione di un padre alla figlia con le stampelle, ma è anche la morale centrale del film. È impossibile rinchiudere o reprimere gli istinti primordiali.
Non è un caso che la domestica, l’incarnazione di queste pulsioni, sia anticipata dall’apparire di un topo nella credenza, che terrorizza la moglie. I topi, nel cinema di Kim Ki-young, rappresentano per eccellenza l’istinto sessuale, come i polli in Hwanyeo alludono alla riproduzione. E, proprio come un topo, Myung-sook si appropria voracemente degli spazi della casa, apre tutti gli sportelli alla ricerca di cibo, si lecca ripetutamente le labbra con rapidi guizzi, sgattaiola sulla terrazza e cammina raso parete per spiare e intrufolarsi in ogni ambiente, dalla cucina alla camera nuziale, fino alla stanza delle lezioni di piano. Di quella stessa casa diventerà padrona, decisa a liberarsi della condizione in cui è relegata.
“All’epoca, le giovani donne di Jeollado e Gyeongsangdo si trasferivano tutte a Seul. I posti di lavoro che trovavano in città si limitavano alla prostituzione, alle domestiche e agli autisti di autobus” ha spiegato Kim Ki-young parlando del film. Parallelamente all’interesse per le pulsioni umane, c’è dunque la volontà di raccontare le concrete problematiche sociali del tempo. L’ascesa di Myung-sook rappresenta anche il riscatto della ragazza operaia precedentemente rifiutata da Dong-sik e indotta al suicidio perché licenziata. Prima della presentazione ufficiale, il regista mostra la domestica già due volte: di spalle, mentre pulisce il corridoio della fabbrica, camminando controcorrente rispetto alla massa delle operaie, e nascosta alla vista, mentre fuma nell’armadio. La trasgressione è parte integrante della sua indole: Myung-sook non ha intenzione di sottomettersi alle imposizioni.
Le donne di Kim Ki-young vivono una condizione di costrizione anche peggiore dei protagonisti maschili. La vita per loro è più difficile, ne è l’emblema la bambina con le stampelle dileggiata dal fratellino. Ma sono anche le più pratiche e volitive, capaci di prendere le redini della situazione, rispetto a uomini in crisi e passivi, schiavi degli istinti ma repressi dalle regole sociali. La domestica ribalta completamente i ruoli di potere, a partire dal rituale di seduzione. Se nel rapporto tra Dong-sik e l’allieva di pianoforte la mano di lui guida quella della ragazza sui tasti, nella scena in cui Myung-sook si denuda e si avvinghia a lui il dettaglio dei piedi nudi della domestica, che salgono sulle scarpe dell’uomo, stabilisce un rapporto simmetrico e contrario. È lei a dettare il tempo e le modalità dell’adulterio, a stabilire le nuove regole della casa e ad esternare i propri moti d’animo, suonando sgraziatamente il piano, feticcio di autorevolezza e rispettabilità.
Speculare alla figura della domestica è quella della moglie, diversa per ruolo e status, ma ugualmente determinata a difendere il proprio interesse, che non coincide con il marito, ma con l’apparenza e l’ascesa sociale. In nome di queste, è capace di ogni crudeltà e di scendere a qualsiasi compromesso che salvaguardi la sua posizione. Come Myung-sook, la signora Kim è intenzionata a migliorare la propria condizione e per niente disposta a rinunciare a ciò che ha già guadagnato, a costo di cedere al ricatto della domestica.
La divisione tra classi e ruoli di potere è sottolineata dalla divisione degli spazi della casa. A livello orizzontale, con l’aprirsi e il chiudersi delle porte e dei pannelli a scorrimento, e a livello verticale, con la scala che separa il piano terra, l’ambiente familiare e domestico, dalla sala del pianoforte al primo piano. È la macchina da presa a collegarli, con scelte di regia che assecondano la pulsione scopica, dalla profondità di campo al ricorrente uso del dettaglio, fino alle soggettive “rubate” attraverso vetrate o porte socchiuse. La stessa morte dei protagonisti è ostentata con insistito compiacimento, come prima era accaduto con i due topi uccisi in cucina, peraltro attraverso lo stesso veleno.
Con una trovata bizzarra tipica del suo cinema, Kim Ki-young conclude il film con un epilogo a sorpresa. Il film ripropone l’arrivo della domestica e il marito si rivolge direttamente agli spettatori, per ammonirli divertito dal rischio di cedere ai propri istinti. Ma, ancora una volta, non è lui ad agire diversamente, bensì la moglie, che allontana l’oggetto della tentazione per la salvaguardia dello status quo.