Un revisionismo noioso
Nel corale Hollywood, creato da Ryan Murphy (Nip/Tuck, Glee, American Horror Story, Pose), l’accattivante mondo della Hollywood degli anni Quaranta è lo sfondo dei successi e delle sofferenze di un gruppo di attori, sceneggiatori e registi che stanno facendo fatica a sfondare, ciascuno a modo suo.
Chiunque abbia una passione per il cinema non vede l’ora di tuffarsi nella storia tormentata dello studio system e di tutte le sue malefatte. Hollywood presenta subito un mondo omofobo, sessista, razzista; i protagonisti sono squattrinati, maltrattati, e devono lottare con le unghie e con i denti per ogni opportunità. Ma presto c’è una svolta: i personaggi devono lottare per superare sessismo, razzismo, omofobia, sì, ma dopo un po’ si aprono le porte chiuse in faccia a chi c’era davvero, permettendogli di trovare successo.
Nel clima politico del 2020, è ridondante dire che il modo in cui le barriere vengono abbattute in Hollywood sia tuttora un miraggio. Da un lato, c’è il piacere inenarrabile di una storia di trionfo in un mondo infame, ma, dall’altro lato, è praticamente impossibile mantenere la tensione narrativa, dopo che si è capito che questa miniserie vuole dare la sua “rivincita” a chiunque sia stato ostracizzato; superato un ostacolo iniziale, tutto andrà sempre bene.
È anche piuttosto irritante il bizzarro sottotesto che fa da fondo a questi successi, ovvero che le persone marginalizzate lo siano perché non si sono impegnate abbastanza a spezzare le proprie catene. Spesso e volentieri, Hollywood toglie la colpa dall’oppressore e la mette nelle mani dell’oppresso che non ha lottato abbastanza. Nonostante lo spirito nobile che ha sicuramente guidato Ryan Murphy e la sua squadra, è offensivo che Rock Hudson venga presentato come uno zuccone a cui sarebbe bastato prendere un altro uomo per mano sul red carpet per non essere più closeted, e Anna May Wong come una che, se si fosse sbattuta, un altro progetto l’avrebbe trovato. È così che una miniserie potenzialmente eccezionale, su carta, diventa un prodotto noioso e, alla fine dei conti, trascurabile. Le sue inesattezze e licenze poetiche promuovono l’inclusione, ma al contempo diventano un detrimento, invece che una soddisfacente illusione.
La mancanza quasi totale di conflitto porta a una serie di personaggi totalmente vacua. A fare eccezione sono, non a caso, i protagonisti di una certa età, ovvero quelli che hanno delle cicatrici – l’attore fallito Ernie (Dylan McDermott), la casalinga riscoperta capo di una casa di produzione Avis (Patti LuPone), la bistrattata Anna May Wong (Michelle Krusiec), il tremendo agente Henry Willson (Jim Parsons). I valori di produzione stellari non controbilanciano una scrittura mediocre; con un budget illimitato e carta bianca da parte di Netflix, Ryan Murphy avrebbe potuto raccontare un po’ meglio il lato oscuro di Hollywood, e avere comunque il lieto fine di cui mai come adesso abbiamo bisogno.
Hollywood [id., Stati Uniti, 2020] IDEATORI Ryan Murphy, Ian Brennan. CAST David Corenswet, Darren Criss, Laura Harrier, Joe Mantello, Dylan McDermott, Jake Picking, Jeremy Pope, Holland Taylor, Samara Weaving, Jim Parsons, Patti LuPone. Drammatico, durata 44–57 minuti (episodio).