Cucchiai d’oro e cucchiai sporchi
In molti hanno scorto tracce di Luis Buñuel, Claude Chabrol e Marco Ferreri, perlustrando Parasite (2019) di Bong Joon-ho. Il regista, Premio Oscar 2020, che non ha mai fatto mistero di ispirarsi al cinema europeo, ha saputo creare, forse più degli altri colleghi della hallyu – letteralmente “ondata”, movimento di rinascita economica e culturale, di cui l’ambito cinematografico costituisce una componente rilevante, che, a cavallo dei due millenni, dalla penisola coreana ha irradiato verso il resto del mondo usi, costumi e consumi -, un punto d’incontro tra la poetica di quegli autori e la realtà sudcoreana contemporanea, con esiti di crescente “esportabilità”.
Gli ultimi vent’anni di cinema sudcoreano hanno saputo mutuare elementi da altre scuole e tradizioni culturali, per elaborare modelli autoctoni, destinati a influenzare irreversibilmente il panorama cinematografico globale. Bong o il Lee Chang-dong di Burning (2018), feroce analisi di una società lacerata a livelli insanabili, c’insegnano quel che non sappiamo più raccontare. Da quanto tempo, alle nostre latitudini, la borghesia era diventata invisibile, sul grande schermo? Mentre gli Stati Uniti hanno riscoperto il dramma sociale e il white trash, grazie al cinema indipendente – Debra Granik, Andrea Arnold, Sean Baker -, e l’Europa continua, con rare eccezioni, a scavare nelle dinamiche delle periferie, la borghesia è divenuta il convitato di pietra del cinema più “engagé”. “Il nostro cinema – scrive in Ignorantocrazia Gianni Canova, a proposito del caso italiano, citando L’uomo dei cinque palloni di Ferreri come una delle poche eccezioni – abbonda di sottoproletari, di pezzenti, è attratto dagli aristocratici «alla Visconti», ma si mostra titubante se non addirittura riluttante all’idea di raccontare la borghesia”. Ci sono, in effetti, diversi punti di contatto tra l’Italia e la Corea del Sud, che rendono ancora più significative le differenze tra le rispettive cinematografie: entrambe sono penisole, afflitte da secoli di dominazione straniera e poi da dittature pluridecennali, dove si è sviluppata una scena artistica attraversata da idee e visioni progressiste.
Ma se in Italia questo si è tradotto in una ritrosia a rappresentare dall’interno i meccanismi del ceto socialmente più forte, in Corea è avvenuto il contrario. La borghesia è oggi mostrata nello splendore delle sue Jacuzzi, dei suoi lampadari, dei suoi impianti domotici e dei suoi giardini. E nella sua mostruosità, nei suoi bassi istinti, nella sua natura ferina, faticosamente riverniciata, nella sua competitività esasperata, che vede nello stato di diritto un freno alla sopravvivenza del più forte.
In una sequenza di High Society (Byun Hyuk, 2018), il potente faccendiere-artista interpretato da Yoon Je-moon commenta, orgogliosamente, la cifra spesa per acquistare il liquido seminale di uno stallone: «Che si tratti di cavalli o di uomini, la linea di sangue è importante». Più avanti, lo vedremo intento a una performance artistico-sessuale, illustrata per evidenziare la sua natura bestiale e al di sopra della legge. Non è un caso che, nell’iconografia del cinema di genere sudcoreano, sia sempre più indistinta la linea di confine tra i gangster e i CEO dei chaebol, i grossi conglomerati finanziari condotti da ricchissime famiglie sudcoreane, tra i più famosi Samsung e Hyundai. Che si tratti del boss di A Bittersweet Life (Kim Jee-woon, 2005), del politico e finanziere di Black Money (Chung Ji-young, 2019), o del rampollo capitalista disposto a tutto di Veteran (Ryoo Seung-wan, 2015), la rappresentazione tende a seguire sempre lo stesso schema: un colletto inamidato che si sporca di sangue.
Si veda, ad esempio, il paradigmatico maquillage storico, compiuto da Im Sang-soo, in The President’s Last Bang (2005). Nel racconto dell’uccisione del presidente Park Chung-hee e dei successivi colpi di mano al vertice, il regista deforma il dato storico, per restituire un’immagine del dittatore Park più vicina a quella del villain del noir e del thriller che a quella reale. Un presidente autoritario, ma convenzionale e settantesco nel look, diventa un boss circondato da eleganti sgherri e dame di piacere, aiutando visivamente lo spettatore a completare l’equazione sulla natura criminale dell’ex presidente. Im ha dedicato buona parte della sua carriera alla raffigurazione dall’interno della borghesia, lavorando sul torbido e sul perturbante che vi si annidano. Dalle infedeltà seriali di La moglie dell’avvocato (2003) a The Taste of Money (2012), in cui il sesso è merce di scambio per ascese sociali di ogni genere, si snoda una filmografia sensuale e kitsch, personale e grottesca, che ruota attorno al remake, in chiave erotica e buñueliana, del 2010 di Hanyeo (Kim Ki-young, 1960), film capitale per comprendere le contraddizioni, e i contrasti sociali e sessuali, che innervano la società sudcoreana.
Per Kim Ki-young la lotta di classe e la lotta dei sessi divengono una cosa sola, attraverso la seduzione di una domestica verso il padrone di casa e il tentativo di sovvertire i principi neoconfuciani di ripartizione tra uomo e donna, su cui si fonda il nucleo familiare nazionale. Tra i dialoghi, parossistici e al limite del surreale, cifra tipica di Kim, spiccano quelli della moglie tradita, che sembra preoccuparsi più del patrimonio famigliare che del proprio onore. La sua natura borghese prevale persino sulla sua dignità. In Hanyeo, Kim convoca tutti gli umori contrastanti di un Paese che sta vivendo la sua “età dell’oro” cinematografica e che cerca di aprirsi alla modernità, ma è ancora preda di una mentalità conservatrice e maschilista. La borghesia ritratta da Kim è ferina e sessuomane, tanto più violenta quando è impotente sessualmente, come illustrerà, con dovizia di particolari e qualche libertà in più, rispetto alle maglie censorie, The Insect Woman (1972), percorso di martirio di una ragazza vessata da uomini agiati. The Insect Woman insiste sul lato più grottesco della vicenda, fino a sfociare nell’horror, facendo deflagrare quello che Hanyeo già conteneva in nuce: la scena in cui il marito tenta di strangolare la domestica – che fa il suo ingresso in scena come una creatura dell’orrore, accompagnata da un’enfatica colonna sonora – porta il dramma familiare oltre i confini del thriller, con la borghesia a sporcarsi nuovamente le mani.
Bong Joon-ho non manca mai di ribadire, in ogni occasione, il suo debito nei confronti di Hanyeo, fino a riprenderne in Parasite la struttura verticale, che riflette la lotta di classe e la distribuzione del potere. Se in Snowpiercer i vagoni del treno sono per definizione sullo stesso livello e orizzontali, infatti, in Parasite Bong riprende da Kim la centralità della scala, e ne fa la vera protagonista del film. Oltre al portato freudiano e sessuale dell’oggetto in sé, risulta chiaro come chi conquisti il piano superiore, non importa con quale mezzo, finisca per detenere il potere: Kim insiste sull’immagine della governante che, in cima alle scale, dà ordini ai legittimi proprietari, mentre Bong usa i gradini per dar vita ai tentativi di sovvertire lo status quo.
La divisione, sempre più profonda, tra chi sta al piano di sopra e chi al piano di sotto – nel 2015, in Corea il 10% della popolazione deteneva il 66% delle ricchezze, mentre la metà più povera della popolazione ne deteneva solamente il 2% – ha portato alla diffusione di due nuove espressioni, nello slang locale, per distinguere i ricchissimi dagli indigenti: i “cucchiai d’oro” e i “cucchiai sporchi”. Mentre il cinema italiano e francese degli anni ’60 e ’70, spesso guidato dal fatalismo dell’ideologia marxista, intravedeva un esito differente rispetto alle condizioni di partenza – magari attraverso il giustizialismo di In nome del popolo italiano –, per il cinema sudcoreano del terzo millennio i tentativi di contraffare le posate sono destinati costantemente al fallimento. I cucchiai d’oro restano tali, ma possono dirsi davvero puliti?