37° Torino Film Festival, 22-30 novembre 2019, Torino
Un cinema umanista
Nella 37a edizione del Torino Film Festival, i quindici film in concorso, opere prime o seconde, provenienti da tutti i continenti, ad eccezione dell’Oceania, hanno presentato un ampio raggio di stili differenti.
Il regista più affermato in competizione era Kantemir Balagov, con il suo Beanpole, brutale come il film precedente, Tesnota: un altro potente ritratto di donna, arricchito da dilemmi morali decisamente complessi. Il comportamento bizzarro e crudele dei protagonisti, nella Leningrado post-bellica, sembra riflettere la corruzione della Russia contemporanea, ma Beanpole non risulta mai didascalico. Ha una fotografia notevole e un uso intelligente del sound design.
Un altro film particolarmente violento, che mostra il peggio degli esseri umani, è il claustrofobico The Platform: il regista basco Galder Gaztelu-Urrutia sa bene come creare tensione psicologica e suspense. Uno spaventoso gioco al massacro, ambientato in una prigione a più livelli, dove la fame e la solidarietà sono i poli opposti di una dicotomia politica senza possibilità di compromesso.
La famiglia è centrale nel plot della maggior parte dei film in concorso. Paulina García e Alfredo Castro sono una coppia di insopportabili nonni in Some Beasts di Jorge Riquelme Serrano. Cinema cileno della tragedia, con tutto il suo peso disturbante di incesti e aggressività, ma senza una messinscena convincente. Al contrario, l’altro film sudamericano, End of the Century dell’argentino Lucio Castro, è un’opera intrigante, in cui il tempo trascorre con la stessa eleganza dei film di Hong Sangsoo. Una storia queer di amore e sesso, alcolica e logorroica, sulla scia dei drammi delicati di Andrew Haigh.
L’attore gallese Tom Cullen, che recitava nel ruolo di Russell proprio nel cult movie di Haigh Weekend, è il regista del mediocre mumblecore sentimentale Pink Wall, pieno di pessimi dialoghi e di performance isteriche. Uno di quei film in cui il comportamento infantile e fastidioso dei personaggi vorrebbe essere divertente o realistico, senza riuscirci. Una simile estetica indie, ma con risultati migliori, definisce il tono di due film nordamericani: Ms. White Light di Paul Shoulberg, un’ambiziosa commedia drammatica, con dosi massicce di umorismo nero sulla malattia e la morte e una protagonista androgina (Roberta Colindrez), e Raf di Harry Cepka, che racconta la storia di un’amicizia morbosa tra due ragazze canadesi, interpretate da Grace Glowicki e Jesse Stanley.
Malintesi e litigi tra amici e all’interno del nucleo famigliare sono alla base di Ohong Village di Lungyin Lim. Antiche tradizioni taiwanesi in contrasto con il business moderno: la società cambia, ma il retaggio culturale reclama ancora il suo spazio. Nella commedia italiana Il grande passo di Antonio Padovan le personalità diverse di due fratellastri entrano in conflitto: Mario e Dario, entrambi abbandonati dal padre, alla fine imparano a rispettarsi reciprocamente, superando le incomprensioni.
Un’altra figura genitoriale complicata è Ingimundur, il vedovo islandese di mezz’età di A White, White Day, diretto da Hlynur Pálmason. L’uomo, interpretato da un Ingvar Sigurdsson di rara intensità, diventa a poco a poco sempre più ossessionato dalla moglie morta e fedifraga, e sempre più violento, in modo un po’ surreale e ridicolo. Il pianosequenza in cui Ingimundur porta sulle spalle la sua nipotina rimane una delle scene memorabili del festival.
Wet Season, dramma sobrio e realistico di Anthony Chen, racconta di Ling, insegnante di cinese mandarino a Singapore, che prova a rimanere incinta da otto anni. Suo marito è un workaholic che la tratta con freddezza e la donna, costretta anche a occuparsi del suocero anziano e malato, sviluppa un’attrazione graduale per uno dei suoi studenti liceali, non senza conseguenze.
In Noura’s Dream di Hinde Boujemaa, c’è una straordinaria Hind Sabri, nel ruolo di una donna tunisina, la cui infedeltà rischia di essere punita con il carcere. La camera a mano, i primi piani commoventi, gli attori eccellenti conducono la narrazione verso un’efficace conclusione. L’armonia perfetta tra lo stile e il contenuto e la descrizione dettagliata della società tunisina, nelle sue contraddizioni, lo rendono un film imperdibile, in un concorso discreto, in cui registi da tutto il mondo hanno esplorato le relazioni umane con grande sensibilità. Per il futuro del cinema nel 21° secolo, a volte meno umanista del dovuto, fa ben sperare.