Festa del Cinema di Roma, 17 – 27 ottobre 2019, Roma
Due anime per una festa
Per quanto si provi a dire il contrario, per quanto lo si neghi, la Festa del Cinema di Roma prosegue senza un filo conduttore. Nulla ci si aspetta e nulla sorprende: festival della dispersione, della distrazione, contenitore animato d’inerzia in cui tutto può stare senza stonare. Perché il tono non c’è, non c’è un polo unico d’attrazione e tutto, attratto egualmente in ogni direzione, scivola, non si rapprende e la memoria lo trascina.
Cosa resta? Poco, se non pochissimo. Un festival costruito a specchio della sua città: estroverso, centrifugo, incontenibile; che tutto offre a tutti ma in niente si identifica e nulla mai lo rappresenta davvero. A scorrere il programma di questa edizione – la quattordicesima – viene in sospetto un punto di vista fantasioso sì, ma ben atto a fare utili distinguo: la Festa di Roma pare un tentativo di trasposizione nella realtà di un servizio streaming – per sua natura variegato, ampio, rivolto ad un target senza precisi confini ma piuttosto abitudinario. Prototipo ante quem di un evento siffatto o mutazione necessaria al passo con un mercato ondivago?
Di certo rassomiglia più ad un osservatorio sul mercato del cinema odierno che sul cinema stesso, titoli srotolati come sfoggio di remoti mercanti, quest’anno ancora più carichi del passato. Trentasette film nella Selezione Ufficiale, quindici a produzione statunitense – uno sproposito –, solo tre italiani, cinque dal Regno Unito e altrettanti dalla Francia. I restanti nove, per buona parte anglo e francofoni, svelano, solo ad un esame quantitativo, il restringimento del campo, che già qualche anno fa era più ampio. Si fanno notare, oltre ai due successi annunciati di Norton, il buono Motherless Brooklyn, e di Scorsese, lo stanco The Irishman, Antigone di Sophie Deraspe, Nomad di Herzog, Willow di Manchevski, Tornare della Comencini e su tutti La belle epoque di Nicolas Bedos. Poco, troppo poco.
Aumentano gli eventi collaterali – incontri e “duelli” con e tra personalità di spicco – che sembrano aver assunto il ruolo di vero traino della Festa. Il pubblico, viste le code per l’ingresso, sembra gradire la scelta. Le sezioni secondarie, tra cui “Riflessi”, hanno sempre ospitato piccole opere, spesso documentari e spesso molto interessanti, ma quest’anno sono apparse più deboli. Sono comunque da segnalare Not everything is Black di Olmo Parenti e Il terremoto di Vanja di Vinicio Marchioni.
Il programma più sostanzioso l’ha però offerto, significativamente, “Alice nelle città”, con i titoli migliori della Festa. The Dazzled di Sarah Suco, Cleo di Eva Cools, Matares di Rachid Benhadj, L’età giovane dei fratelli Dardenne, tre italiani (È meglio che tu pensi la tua di Davide Vavalà, Bellissime di Elisa Amoruso e La villa di Claudia Brignone), ma soprattutto tre gemme: Bull di Annie Silverstein, Light of my life di Casey Affleck e Maternal di Maura Delpero. Titoli coesi, indirizzati ad un tema – l’iniziazione alla vita adulta e la tentazione a fuggirne le responsabilità – film mobili, vivi, che procedono discreti sulla strada del Cinema.
Andrebbero dunque fatti discorsi distinti, per la Festa ufficiale, sorella maggiore che inciampa per il suo eccesso, e per il piccolo Festival. Questo ha ormai tutti i caratteri e le premesse per una piena autonomia e non necessita più di un’ala protettrice, né tanto meno sopporta di stare in ombra. Come i personaggi dei suoi film dovrebbe lasciare le mani della madre e camminare da sola.